Pechino ha creato istituzioni economiche alternative a quelle occidentali. E ora potrebbe allargare il proprio raggio di azione all’economia russa colpita dalle sanzioni. Ma non è affatto facile come sembra. E non mancano i rischi

Joe Biden non si stanca di ripetere alla Cina, che si è detta contro la guerra ma anche contro le sanzioni, di stare alla larga dal conflitto ucraino. Ma dietro gli equilibrismi cerchiobottisti di Pechino si staglia con inconfondibile chiarezza un disegno: attirare una Russia depotenziata nella sua sfera d’influenza economica.

 

Il quadro finanziario è composto e pronto alla fase operativa. La Cina negli ultimissimi anni, malgrado l’opposizione esplicita della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, si è creata altrettante strutture alternative. Al posto della World Bank, ecco l’Asian Infrastructure Investment Bank, sede a Shanghai, che ormai conta 33 Paesi membri in Asia e Africa. All’Fmi invece Pechino contrappone una complessa architettura di prestiti bilaterali in yuan che vincolano i Paesi in via di sviluppo a usare la valuta cinese. La Cina ha poi costituito la sua agenzia indipendente di rating, la Dagong Global Credit, che ormai nelle analisi internazionali si affianca alle Big anglosassoni del settore: Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Infine, non minore, la Cina ha creato il Cips (Cross Border Interbank Payment System), il sistema per i pagamenti interbancari alternativo all’ormai famoso Swift delle banche occidentali, che opera sotto la supervisione della Banca centrale di Pechino e ha gestito nel febbraio 2022 un volume di transazioni medie quotidiane di 388,8 miliardi di yuan (dati dello stesso sito web del Cips), pari a 55 miliardi di euro, un incremento del 50% rispetto a un anno fa. Bene: la crisi ucraina può avere l’effetto di un “boost” per il salto di qualità dell’universo parallelo della finanza cinese.

 

Pechino, beninteso, prima di far partecipare Mosca al suo Big Bang imporrà condizioni precise, onerose e talvolta umilianti. Se le banche russe espulse da Swift vogliono entrare nel sistema Cips, ad esempio, possono farlo solo se accettano di regolare le loro transazioni in yuan. I cinesi si rifiutano di riempire le loro casse di super-svalutati rubli. Per lo stesso motivo, ammettere la Russia nelle varie istituzioni finanziarie di cui si parlava (banca di sviluppo, agenzia di rating, strumenti di cooperazione) è imbarazzante perfino per gli iper-pragmatici cinesi.

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La Cina, per quanto legata da grandi patti e abbracci a Putin, teme di mettersi in casa un partner bizzoso e sicuramente pericoloso oltre che ovviamente impopolare quant’altri mai. Però l’occasione potrebbe essere irripetibile. La Russia peraltro preme per accelerare i tempi della nuova unione per bypassare le sanzioni senza perdere sovranità proprio mentre ha scatenato una guerra per affermare il suo nazionalismo distopico.

 

Il primo passo potrebbe essere quindi l’associazione delle banche russe bloccate dalle sanzioni, compresa la banca centrale (alla quale è stato vietato di accedere agli oltre 400 miliardi di riserve in valuta detenute in occidente), al sistema Cips. Ma neanche questo è facile. Intanto il Cips è concepito per funzionare solo con il renmimbi-yuan: il suo scopo originario è proprio di far acquisire alla valuta cinese (oggi utilizzata solo per il 3,2% delle transazioni globali) uno standing internazionale entrando nel Gotha delle valute di riserva (dollaro, euro, yen, franco svizzero). Le proporzioni del Cips sono però minuscole rispetto al sistema occidentale Swift: a fine febbraio - ultimi dati disponibili sempre sul sito - aveva circa 1300 partecipanti, quasi tutti in Cina, e processava 13mila transazioni al giorno. Lo Swift ha più di 11mila istituzioni finanziarie accreditate e gestisce 42 milioni di transazioni al giorno.

 

«La forza dello Swift, una sorta di WhatsApp delle banche - spiega Brunello Rosa, docente di finanza e macroeconomia alla London School of Economics - consiste nel fatto che quando arriva il “messaggino” s’intende già accertata, in tempo reale, l’affidabilità della transazione, la sua correttezza e legalità. Le transazioni vere e proprie avvengono sempre banca-su-banca però in tempo pressoché reale perché non c’è nessun altro accertamento da fare. Sospendere le banche russe, com’era successo in passato per esempio con quelle iraniane, significa privarle della “linea”, del “numero telefonico” necessario, con tutte le garanzie connesse. Se vogliono continuare a esistere, le banche devono rivolgersi a un altro operatore, ma di operatori efficienti e riconosciuti come Swift non ce ne sono».

 

In teoria sarebbe possibile procedere anche senza Swift ricorrendo a mezzi arcaici quali e-mail, fax, telex, ai quali far seguire accertamenti sulla solvibilità e quant’altro. I tempi sono evidentemente incompatibili con l’economia globalizzata, e nel caso della Russia si troverebbe sempre un punto di blocco appunto perché quasi l’intero sistema creditizio è sotto sanzioni.

 

«Va poi considerato - aggiunge Michael Spence, economista di Stanford che vinse il Nobel 2001 proprio per i suoi studi sulle asimmetrie informative nei mercati - che le banche cinesi diventerebbero essere stesse potenzialmente soggette a sanzioni, a seconda dei loro rapporti con le istituzioni finanziarie russe». Si sta parlando delle “sanzioni secondarie” che rendono rischiosa qualsiasi attività bancaria internazionale perché appena si sfiora una banca russa a qualsiasi titolo, anche marginale, coinvolta in un’operazione, scattano il blocco, l’allarme, le sanzioni. Addirittura l’inclusione nella “lista nera”: è successo in passato in occasioni analoghe per altri Stati “canaglia” (Iran, Iraq, Venezuela, Afghanistan) anche a diverse banche italiane. Per questo i cinesi, prima di aprire i loro canali paralleli alla finanza russa, ci stanno pensando più e più volte.

 

Nel frattempo ci si avvicina al default della Russia. Che però, secondo il Nobel Spence, non va sopravvalutato: «Non modificherebbe molto la situazione visto l’isolamento in cui è finito il Paese a partire dalla banca centrale, la cui operatività nel recuperare e redistribuire valuta forte è del tutto bloccata. E sono oltre 300 le multinazionali che già hanno abbandonato il Paese. Proprio così si spiegano tutta l’attenzione e la prudenza con cui la Cina accoglie l’abbraccio russo». Anche perché, come ricorda Riccardo Perissich, che conosce bene gli equilibri globali visto che è stato a lungo dirigente della Ue con deleghe ai rapporti internazionali, «il grado di integrazione fra occidente e Cina è incomparabilmente superiore a quello che abbiamo con la Russia e non è interesse di nessuno smantellarlo. Tuttavia anche con la Cina c’è una dimensione geopolitica di cui l’economia deve tenere conto: nel delicatissimo confronto fra Washington e Pechino si fatica a capire come si collocherebbe la variabile impazzita di Mosca».

 

Per molto meno, ricorda Perissich, sono in passato scoppiate guerre sanguinose: «Il conflitto del Peloponneso nacque quando Atene si immischiò in questioni di piccole colonie e si ritrovò in guerra con Sparta. Nella prima guerra mondiale la scintilla fu accesa dalle follie di Austria e Serbia. I guai grossi nascono spesso senza la volontà dei maggiori protagonisti, in questo caso Usa e Cina. Oggi Pechino e Mosca hanno in comune solo l’interesse a scalzare il dominio occidentale, senza però scassare tutti gli equilibri». La Cina ha anche un altro problema con la Russia: secondo diversi analisti, Xi era stato convinto da Putin che in Ucraina sarebbe stata una passeggiata e che questo gli avrebbe facilitato un colpo a Taiwan. La reazione occidentale lo induce a maggior prudenza. 

 

C’è ancora un motivo che rende inquietante l’approccio Cina-Russia, le criptovalute: bitcoin e i suoi imitatori. I migliori clienti di questo “denaro” senza patria sono mafiosi, magliari, riciclatori, mercati d’armi, oligarchi. Tutti concentrati a est. «I cinesi ma soprattutto i russi - riprende Rosa della Lse - sono i padroni del criptomercato, basti pensare che la maggior parte delle “miniere” dove vengono creati digitalmente i bitcoin si trovano in quella parte del mondo, adesso specialmente in Kazakistan. La sfida è di mettere sotto il controllo delle autorità di vigilanza monetaria tutti i “crypto-exchange” (alcuni lo sono già), i luoghi dove avviene lo scambio fra valute “vere” e bitcoin che diventano inevitabilmente snodi e centrali di riciclaggio».

 

Gli americani, custodi dell’ortodossia delle sanzioni, sono diventati bravissimi nello scovare interessi inappropriati da quando è partito, all’indomani dell’11 settembre, il Terrorist Finance Tracking Program che rende qualsiasi messaggio e passaggio finanziario trasparente per la Cia, il Tesoro, la Casa Bianca. Come a volte accade, due personaggi anonimi finiscono con l’avere responsabilità gigantesche. Daleep Singh è un ex dirigente della Fed e del Tesoro Usa, membro del National Security Council.

 

Bjorn Seibert, già funzionario della Difesa tedesco, è il capo di Gabinetto di Ursula von der Leyen. I due sono in contatto continuo: a loro le rispettive amministrazioni, a Washington e Bruxelles, delegano di scovare le scappatoie dei russi - siano essi banche, governo, oligarchi, aziende – per sfuggire agli embarghi. Ne trovano ogni giorno, e sempre più in direzione Pechino.