L’aumento dei prezzi è destinato a rimanere con noi più del previsto. E porterà a una serie di conseguenze geopolitiche e nella vita di tutti

Inflazione e globalizzazione, globalizzazione e inflazione. E sullo sfondo di tutto, la guerra. Concetti, pericoli e incubi che si inseguono in un rapporto causa-effetto diabolico e inestricabile. L’unica certezza è che fin quando i nodi non si scioglieranno a partire ovviamente dalla guerra, l’inflazione - simbolo da sempre delle incertezze economiche e delle paure per il domani - resterà fra di noi.

 

Magari non con la stessa velocità con cui ha fatto irruzione - da quasi zero all’8 e mezzo in America, appena meno in Europa, in un anno - ma comunque su livelli preoccupanti e sufficienti a far modificare in peggio tutte le previsioni di crescita e di sviluppo formulate appena all’inizio del 2022.

 

«Buona parte della potenzialità di combattere l’inflazione risiede nella Federal Reserve e nella Bce», commenta Daniel McFadden, economista premio Nobel di Berkeley. «A questo punto le banche centrali hanno la capacità di determinare il corso degli eventi: per evitare la temuta stagflazione, ossia la combinazione di recessione e inflazione complicatissima da vincere una volta che si è innescata, potrebbero addirittura indurre una recessione globale alzando in misura più forte del previsto i tassi d’interesse. La riduzione complessiva dell’attività, com’è avvenuto all’inizio della pandemia, provocherebbe matematicamente il crollo dell’inflazione». È il cosiddetto “soft landing”, manovra azzardata e delicata che però in passato a volte è riuscita. «Viviamo – dice McFadden - tempi stimolanti per i banchieri centrali: il problema sarà poi vincere la scommessa di una rapida ripresa».

 

Ma una ripresa troppo rapida dopo lo shock pandemico nella seconda metà del 2021 ha provocato i rialzi-record dei prezzi all’origine dell’inflazione, dovuti alla furibonda domanda di materie prime - energetiche, tecnologiche, alimentari - che si è scontrata con i ritardi nel riavvio dei canali internazionali di produzione e distribuzione: i costi della spedizione di un container sono quasi all’istante quintuplicati. È andata in crisi la globalizzazione, anzi la «iper-globalizzazione» come la chiama Dani Rodrick su Project Syndicate ricordando che le vittorie dei conservatori erano una ritorsione contro la fede cieca nella globalizzazione che aveva indebolito le classi medie e lavoratrici dell’occidente. «Clinton la riteneva immutabile e irresistibile, l’equivalente di una forza della natura come vento o acqua», ricorda Rodrick, che insegna politica economica internazionale alla Kennedy School of Government di Harvard. «Blair diceva che discuterne era come dibattere se l’autunno dovesse seguire l’estate». I risultati sono noti, da Trump alla Brexit.

 

Le prime crepe sono arrivate con i dazi incrociati fra Usa e Cina nell’era Trump che hanno provocato i primi aumenti dei prezzi: e con tutto quello che è successo negli ultimi due anni, oggi subiamo in pieno l’onda lunga della tempesta. «Il mondo non era preparato a gestire shock come la pandemia e la guerra. Sono emerse le fragilità delle catene di approvvigionamento costruite in trent’anni di globalizzazione, troppo lunghe e piene di insidie», spiega Manuela D’Onofrio, chief investment officer di Unicredit. «Come si può pensare di dipendere per il 50% delle forniture di semiconduttori, centrali nella moderna economia, da due soli Paesi, Taiwan e Corea del Sud? Tanti sono i colpevoli da additare, non ultimi gli analisti che hanno guardato solo ai livelli di profitto delle aziende occidentali, avallandone le forniture da qualsiasi mercato purché a prezzi bassi senza valutare la sostenibilità in termini di continuità. La Cina poi, oltre alle tensioni geopolitiche di cui è protagonista, sta nuovamente contribuendo a una crisi di offerta con le sue politiche “zero-Covid” e i lockdown a oltranza».

 

Farsi guidare solo dalla convenienza dei prezzi dei beni provenienti da est, insomma, non è stata un’idea lungimirante, e gli stessi prezzi ora s’impennano. «Certo, non si potevano prevedere shock a ripetizione di questa portata, sta di fatto che la situazione è radicalmente e strutturalmente cambiata», commenta Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. «Anche dopo la guerra, sarà inevitabile la balcanizzazione delle zone d’influenza e pressoché impossibile per molti decenni ripristinare i liberi flussi di beni e servizi da un angolo all’altro del pianeta. L’inflazione, diretta conseguenza di questa fine della globalizzazione, è il segnale d’allarme che si è acceso in tutto il mondo». Si è acceso con rapidità sconcertante: alla fine dell’anno scorso, 17 trilioni di dollari (migliaia di miliardi) erano “parcheggiati” in titoli a rendimento negativo, soprattutto bund tedeschi e Treasury bond americani (ma anche i Bot italiani avevano a lungo offerto tassi sottozero). Si contava sul rafforzamento dei valori per poterli vendere sul secondario prima della scadenza mentre l’assenza di inflazione garantiva la tenuta del valore: niente più di tutto questo, è partita la corsa a liquidare questi titoli che si sono ridotti di 2,6 trilioni mentre gli indici di mercato hanno perso il 15%.

 

Non è solo una questione finanziaria. «La guerra è una miccia che si accende sotto una insicurezza agroalimentare covata da tempo», accusa Luigi Scordamaglia, a capo di Filiera Italia, alleanza di Coldiretti e grandi marchi del food. «Il blocco del Mar Nero, lo stop alla semina in Ucraina, la mancanza di fertilizzanti per il blocco russo e perfino le misure protezionistiche indiane, si scaricano sull’escalation dei prezzi. Il guaio è che l’Europa aveva da tempo intrapreso lo smantellamento delle produzioni agroalimentari, proprio come nell’energia, mettendo a rischio la sicurezza delle forniture».

 

Va ancora peggio nei Paesi in via di sviluppo di Africa e Medio Oriente, dipendenti al 100% dal grano proveniente dall’Ucraina e con governi dalla già precaria stabilità. Secondo la Fao, gli effetti si abbatteranno sui flussi migratori: centinaia di milioni di persone affamate si sposteranno per cercare cibo. Ancora una volta, entrano in causa le contraddizioni della globalizzazione: «Quando la Cina stocca il 60% dei cereali mondiali e investe 7 miliardi di dollari in Algeria per produrre fertilizzanti attraverso cui controllare la produzione alimentare in Africa - dice Scordamaglia - è evidente che la geopolitica del cibo non è una questione secondaria».

 

Il peggio deve venire: secondo Filiera Italia l’inflazione nel settore esploderà tra agosto e settembre, «ma già oggi un’impresa agricola su dieci e tre aziende agroalimentari su dieci sono costrette a chiudere per gli aumenti dei costi di produzione, visto che l’energia è lievitata in certi casi fino al 650% rispetto al pre-pandemia (38% la media Istat a fine aprile su base annua, di gran lunga la voce di maggior incremento, ndr)». I rischi non si esauriscono nei prezzi: la carenza di materie prime sta facendo chiudere un occhio a Bruxelles sull’ingresso di prodotti fuori standard, a cui le famiglie più povere devono rivolgersi per i loro consumi allargando così l’odiosa forbice fra chi può permettersi cibo di qualità e chi no. È così che l’inflazione mina la coesione sociale del Paese.