Sono 14.362 le nuove imprese hi-tech nate dopo il decreto del 2012. Ma oggi il sistema arranca e invoca più stato nel sostegno all’innovazione giovane. E la burocrazia e i troppi cambia la vertice dei ministeri non aiutano

L’Italia è diventata il Paese amico delle startup, e quindi dell’innovazione, come auspicava il ministro dello Sviluppo Economico nel 2012, annunciando il primo Startup act italiano? «Dal punto di vista normativo ci siamo riusciti, dal punto di vista dei soldi c’è ancora molto da fare», risponde oggi Corrado Passera, che guidava il dicastero di via Veneto nel governo Monti e oggi è Ceo di Illimity, una startup fintech.

 

Dieci anni dopo l’introduzione della figura giuridica della startup innovativa nell’ordinamento italiano, il decollo c’è stato (per usare una metafora ispirata dal significato della parola inglese). Ma l’Italia non ha ancora raggiunto la velocità di crociera necessaria per stare in quota con Francia, Germania, Spagna. Siamo la quarta economia d’Europa ma solo dodicesima per investimenti sulle startup (analisi Dealroom). Una posizione di svantaggio in un quadro economico globale sempre più segnato dalle tecnologie e dall’innovazione. «Esisteva ed esiste un valore di sistema nel favorire aziende che si prendano i rischi dell’innovazione», spiega Passera.

 

Non sarà ancora amicizia piena e convinta, quindi, ma le relazioni sono molto migliorate tra Italia e startup: la svolta legislativa del 2012 è stata un punto di non ritorno. «Certamente ha alzato di molto il livello di attenzione della leadership», osserva Gianluca Dettori, protagonista dell’economia digitale di fine Novecento (ci ha anche scritto un libro “L’Italia nella Rete”), venture capitalist della prima ora (ora guida il fondo Primo ventures) e presidente dell’associazione Italian tech alliance. «Se ripenso a quegli anni, non avrei mai creduto che sarebbe stato possibile quello che è accaduto dopo. Adesso è impossibile che tutto questo scompaia o non venga tenuto in considerazione».

 

Flashback. Il 2012 è un anno difficile per l’Italia e i suoi conti. Lo spread tiene in fibrillazione i mercati e in luglio il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi pronuncia la famosa frase «whatever it takes». «Portare un governo che imprimeva una svolta di austerità al Paese a prendere provvedimenti a favore della nuova imprenditorialità non era così scontato», osserva Stefano Firpo, allora capo della segreteria tecnica di Corrado Passera e oggi capo di gabinetto del ministro dell’Innovazione tecnologica, che ci regala un dettaglio inedito: «Ho scritto io le norme nel luglio 2012 ad Ansedonia a casa di Pietro Fioruzzi, giurista allora advisor del Mise».

 

Dal “libro dei sogni” Restart Italia, preparato dalla task force voluta da Corrado Passera, al Decreto Crescita 2.0 dell’ottobre 2012. Le resistenze a una politica di sostegno all’imprenditoria innovativa e soprattutto la difficoltà di trovare le necessarie coperture finanziarie vengono superate con la creazione della figura giuridica “startup innovativa” che deve avere un forte contenuto tecnologico e di competenze (almeno il 15 per cento  di investimenti in ricerca o laureati o dottorandi nel team o un brevetto oltre ad altri requisiti formali) a cui riservare incentivi fiscali, riduzioni di costo del lavoro e altri vantaggi. «L’idea fu concentrare su un numero limitato di imprese il massimo sforzo possibile», ricorda Firpo. Nel 2018 arriva la promozione dell’Ocse, che valuta positivamente l’impatto dello Startup act italiano.

 

Insomma, una legge da festeggiare lì dove nel maggio 2012 si ritrovò Passera e la sua task force, coordinata da Alessandro Fusacchia, per raccogliere le esigenze e le richieste dell’ecosistema e dove poi, nel settembre successivo, venne presentato il decreto: Ca’ Tron di Roncade, nella campagna trevigiana, regno di Riccardo Donadon che lì ha fondato nel 2005 H-Farm, incubatore di startup oggi sempre più dedicato alla formazione per l’imprenditoria. «Il prossimo 12 settembre celebriamo la ricorrenza con Passera e i ministri Colao dell’Innovazione e Messa dell’Università», anticipa Donadon a L’Espresso. «Ci saranno anche 500 ragazzi delle scuole superiori e dell’università perché l’obiettivo è ricordare a chi sta al governo l’importanza di creare condizioni per lo sviluppo e ai giovani che si può fare».

 

In dieci anni molti hanno fatto startup in Italia, lavorando sulle tecnologie digitali. Nel registro dedicato delle Camere di commercio sono iscritte 14.362 startup innovative (dati Infocamere all’1 aprile), il cuore di un ecosistema dove operano 53 incubatori certificati (almeno uno in ogni regione), quasi 50 fondi di venture capital, una ventina di fondi di corporate venture capital (quelli delle aziende), 1.200 business angel (cioè gli investitori informati, cioè privati). Entusiasmo e ottimismo sono caratteristiche comuni a tutti coloro che fanno startup o lavorano per le startup ma non impediscono di vedere i limiti della scena italiana. «C’è molta più consapevolezza di 10 anni fa. Ma l’ecosistema non è esploso», commenta amaro Donadon. «Le startup sono ancora considerate un tema di contorno, non sono ancora centrali nell’economia del Paese, perché c’è ancora diffidenza nei confronti di questo mondo e non puoi certo eliminarla per legge».

 

Serve un po’ di manutenzione, suggerisce pragmaticamente Cristina Angelillo, presidente di InnovUp, evoluzione dell’associazione Italia Startup, nata negli stessi mesi dello Startup act: «È fondamentale aggiornare e migliorare la normativa nata ormai 10 anni fa in un contesto totalmente differente a quello attuale, per renderla coerente con le esigenze di startup, incubatori/acceleratori, fondi di investimento e business angels». «È mancata un’evoluzione e un potenziamento di quanto fatto dieci anni fa», aggiunge Paolo Anselmo, presidente dell’associazione che riunisce proprio i business angel, Iban: «Gli incentivi fiscali sono stati aumentati all’ingresso, quando fai l’investimento, ma in uscita non è cambiato nulla: se compri azioni Stellantis o investi su una startup, quando disinvesti, se hai realizzato un utile, il fisco trattiene il 26 per cento. Non è stato preso atto che investire su una startup è un’attività ad altissimo rischio».

 

Gratta, gratta torna sempre il tema dei soldi. Tra 2016 e 2021 in Italia sulle startup sono stati investiti 3,6 miliardi di euro contro i 76,4 del Regno Unito, 32,9 miliardi di Germania, 25,9 di Francia. «La dotazione del Pnrr dedicata all’innovazione, che ammonta a 18 miliardi di euro fino al 2026, ha certamente portato, già all’inizio dell’anno, ad un’iniezione di capitale straordinario in questo settore», ricorda Angelillo.

 

Due miliardi e mezzo sono per startup e Pmi innovative e saranno gestiti da Cdp-Venture Capital, che ha già dato una scossa al mercato con il Fondo nazionale innovazione: 1,8 miliardi gestiti e 846 milioni investiti su 267 startup in due anni e mezzo di attività. «La traiettoria di crescita è la stessa, ma l’Italia è indietro di 10 anni», conclude impietosa l’analisi di Dealroom ma questo ritardo potrebbe rivelarsi un vantaggio adesso che nei mercati più maturi si stanno sgonfiando le valutazioni delle startup. «L’Italia è rimasta un po’ isolata e questo le ha fatto male negli anni della crescita degli investimenti e della supervalutazioni delle startup», è la lettura di Antonio Ghezzi direttore dell’Osservatorio startup hi-tech del Politecnico di Milano, nato proprio nel 2012 a valle dello Startup act. Il confronto fra i dati 2012 e 2021 mostra cambiamenti importanti: sono cresciuti gli investitori informali (i business angel), i capitali arrivati dalle piattaforme di crowdfunding e, elemento rassicurante, gli investitori internazionali. Molto meglio ma non benissimo. «Se fossi un demiurgo, dedicherei risorse pubbliche per raddoppiare gli investimenti di venture capital in Italia, facendo sì che lo Stato si prenda una quota maggiore del rischio che comportano», fantastica Passera.

 

Difficilmente accadrà qualcosa del genere, perché il clima è cambiato e non sono mancate azioni di controriforma. La costituzione online e gratuita delle srl, ad esempio, era stata una delle semplificazioni introdotte dallo Startup act e accolta poi dalla direttiva europea sul diritto societario digitale: nel 2021 è stata “bruciata” da un controverso decreto che ha restaurato l’esclusiva dei notai con grande disappunto delle startup che hanno visto aumentare il costo del loro atto di nascita. Che cosa è accaduto? «Sono venuti meno gli anticorpi e la volontà politica e capacità amministrativa», spiega Mattia Corbetta, oggi analista politico del Centro Ocse di Trento per lo sviluppo, che è stato il funzionario del Mise che per più tempo ha seguito lo Startup act dal 2012 al 2019. «Sulla costituzione online ci furono subito decine di ricorsi e allora li abbiamo vinti tutti. La norma andava difesa, anche a livello amministrativo e invece hanno prevalso gli interessi delle lobby».

 

La discontinuità è un problema annoso della politica economica italiana. E per capire quello che è accaduto (o non è accaduto) dopo lo Startup act basta mettere in fila i nomi dei ministri che si sono succeduti al Mise dopo Passera (tra parentesi la durata della loro permanenza in via Veneto): Flavio Zanonato (10 mesi), Federica Guidi (34 mesi in due governi), Carlo Calenda (18 mesi), Luigi DI Maio (15 mesi), Stefano Patuanelli (17 mesi), Giancarlo Giorgetti (in carica da febbraio 2021). Sette ministri in 10 anni sono troppi anche per imprese veloci e dinamiche come le startup.