In Italia è povero anche chi lavora. Un occupato su dieci ha un reddito inferiore a quello che sarebbe necessario per vivere dignitosamente, secondo i dati che il ministro del Lavoro Andrea Orlando e l’economista Ocse Andrea Garnero hanno presentato a inizio 2022. Tra questi, coloro che versano nelle condizioni peggiori sono i lavoratori autonomi.
Come si legge nel report di Oxfam Disuguitalia, il 17 per cento degli indipendenti fa parte dei working poor, cioè di coloro che pur avendo un’occupazione, sono a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo, dell’incapacità di risparmio. Non conta solo lo stipendio percepito, perché anche il nucleo familiare e le ore lavorate hanno un peso. Anche per questo pensare a una legge sul salario minimo che non tenga in considerazione le partite Iva significa non voler risolvere il problema della povertà.
Perché, sebbene il numero sia in diminuzione, il nostro rimane il paese degli autonomi, che sono circa 5 milioni. Il 16,3 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha una partita Iva, contro il 9,2 per cento della media europea, visto quanto emerso dallo studio elaborato da La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Eppure, il lavoro indipendente è rimasto escluso dall’agenda politica e dal dibattito che si è aperto in seguito all’accordo trovato dall’Unione europea per promuovere l'adeguatezza dei salari minimi legali negli Stati membri, lasciando a ciascuno la possibilità di legiferare in proposito.
C’è una proposta di legge avanzata da Fratelli d'Italia in discussione al Parlamento da ottobre 2021, che dovrebbe garantire alle partite Iva retribuzioni adeguate. Ma, per Anna Soru, Presidente di Acta, l’associazione dei freelance italiani, ovvero di tutti i professionisti indipendenti che operano prevalentemente con la partita Iva ma non solo, «è meglio che non venga approvata. Perché una legge sbagliata è peggio dell’assenza di una legge. Il ddl trasmette l’idea che siano i lavoratori colpevoli di accettare compensi non equi attribuendo agli ordini professionali la facoltà di adottare sanzioni deontologiche nei confronti degli iscritti che accettano una parcella troppo bassa. Inoltre, non prende in considerazione tutti gli autonomi ma solo i professionisti che lavorano per banche, assicurazioni, pubblica amministrazione e per imprese con ricavi superiori a 10 milioni di euro o con più di 50 dipendenti. Mentre gli autonomi sono un gruppo eterogeneo e molto più vasto».
Per Soru il fatto che in un momento di crisi generalizzata del mondo del lavoro le partite Iva siano tra coloro che vivono la situazione peggiore dipende da più ragioni: il trattamento fiscale, la scarsa presenza di bonus e agevolazioni. Ma soprattutto la mancanza di parametri su cui basare la richiesta di retribuzione. Che troppo spesso è conseguenza dalla volontà del cliente più che dalle reali capacità contrattuali del lavoratore. «Per questo, un salario minimo legale unico fungerebbe da limite chiaramente riconoscibile. Tutti saprebbero che pagare un lavoratore sotto quella soglia è illegale. Perché il mercato del lavoro è lo stesso e le condizioni di subordinati e indipendenti si influenzano reciprocamente». E perché per contrastare il lavoro sottopagato è necessario agire dove questo si annida. Dove mancano le tutele.