Recessione? Quale recessione? Vista dai posti di comando delle grandi banche, la nuova crisi economica che minaccia l’Europa assomiglia molto a un’illusione ottica. Le aziende soffrono, le famiglie tagliano i consumi spaventate dall’inflazione, ma in Borsa gli istituti di credito tengono botta mentre il resto del listino naviga in ribasso. Gli investitori viaggiano al traino dei report positivi degli analisti che raccontano di conti in grande spolvero per i big della finanza nostrana. Lo scenario è cambiato in piena estate, quando la Bce ha invertito la rotta della politica monetaria. Per la prima volta dopo 11 anni, Francoforte ha corretto al rialzo i tassi d’interesse. Al ritocco di mezzo punto deciso il 21 luglio, ne è seguito un altro di 75 centesimi lo scorso 8 settembre. E così, nell’arco di due mesi, l’indice azionario del settore bancario ha recuperato il 10 per cento circa, mentre la Borsa nel suo complesso, tra alti e bassi, si trova ancora allo stesso livello di fine luglio. In generale, i mercati riflettono il rallentamento complessivo dell’economia e la possibilità sempre più concreta che nel primo trimestre dell’anno prossimo Stati Uniti ed Europa scivolino verso la recessione. Per la finanza, invece, il discorso è diverso, perché l’aumento dei tassi d’interesse, almeno nel breve termine, si traduce in maggiori profitti per i banchieri.
«Si è aperta una fase del tutto nuova», riassume Andrea Resti, professore all’Università Bocconi ed esperto di mercato del credito. «I recenti interventi della Bce - spiega Resti - ci hanno riportato in un ecosistema che ha garantito a lungo utili abbondanti per il sistema bancario». In sostanza, nell’ultimo decennio, un decennio di denaro facile e di grande liquidità sui mercati, con il costo del denaro prossimo allo zero, gli istituti hanno visto crollare i proventi di quella che era considerata la loro attività principale, cioè prendere denaro, sotto forma di depositi, e darlo in prestito. La remunerazione dei conti correnti si è avvicinata sempre di più allo zero e, d’altra parte, sono di molto diminuiti anche i cosiddetti interessi attivi, cioè i ricavi legati all’attività di finanziamento alle famiglie e al sistema produttivo. Il saldo tra gli oneri per la raccolta e i proventi degli impieghi viene indicato nei bilanci alla voce “margine di interesse”. Una voce che negli ultimi anni ha perso peso nel conto economico delle banche a vantaggio delle commissioni da altri servizi, come la gestione di patrimoni e la vendita di prodotti finanziari.
Adesso però la musica è cambiata, si torna all’antico. Approfittando del doppio intervento estivo della Bce, le banche hanno corretto al rialzo i listini. Mutui e nuovi finanziamenti aziendali costano già di più rispetto al giugno scorso. L’Euribor a tre mesi, che è il tasso di riferimento per i prestiti a tasso variabile, ha superato a metà settembre quota 1 per cento, mentre a luglio era ancora intorno allo zero. A queste cifre va poi aggiunto il cosiddetto spread, variabile da banca e banca. Si ottiene così il tasso applicato al finanziamento. Considerando i costi accessori, per un mutuo di 150 mila euro standard a tasso variabile rimborsabile in 20 anni per l’acquisto della prima casa è difficile spuntare meno del 2 per cento l’anno, mentre per il mutuo a rata fissa si arriva oltre il 3 per cento. Le condizioni del finanziamento possono ovviamente variare in base alla durata del prestito e alla quota del valore dell’immobile che viene coperta dal fido bancario.
Questa è la fotografia del mercato a fine settembre, ma nelle prossime settimane i numeri andranno di sicuro aggiornati al rialzo. Sulla scia della Fed statunitense che, come previsto, mercoledì 21 settembre ha dato una nuova stretta alla politica monetaria con l’obiettivo di arginare l’aumento dell’inflazione, è molto probabile che in ottobre anche la Bce decida un ulteriore aumento dei tassi. Nelle attese degli analisti, Francoforte potrebbe varare un incremento di 75 centesimi, pari a quello di settembre. Il tasso principale, riferimento per l’intero sistema del credito, arriverebbe così al 2 per cento per la prima volta dal 2009. Facile prevedere, quindi, che gli istituti di credito torneranno a ritoccare verso l’alto i prezzi dei propri prodotti di finanziamento e vedranno di conseguenza aumentare di molto i ricavi nell’ultimo scorcio dell’anno.
Per i banchieri questo è il migliore dei mondi possibili. Secondo una recente ricerca dell’ufficio studi di Citi, a un aumento di mezzo punto percentuale del costo del denaro corrisponde in media l’8 per cento di profitti in più per i maggiori gruppi creditizi europei. I tassi in rialzo, infatti, garantiscono maggiori introiti. I costi, invece, restano pressoché invariati visto che la quasi totalità dei depositi della clientela non viene remunerata e quasi certamente non lo sarà neppure nell’immediato futuro. E d’altronde perché mai le banche dovrebbero pagare per il denaro che ricevono se milioni di italiani sono disposti a parcheggiare gran parte dei loro risparmi su conti correnti che rendono zero? I depositi della clientela residente ammontano in totale a circa 1.800 miliardi, oltre 200 miliardi in più rispetto al febbraio del 2020, prima dello scoppio della pandemia. E anche se da qualche mese le statistiche segnalano un rallentamento del tasso di crescita dei depositi, le banche non hanno davvero problemi sul fronte della raccolta, che a giugno del 2022, ultimo dato disponibile, era aumentata di un altro 3,3 per cento rispetto all’anno precedente. Il funding gap, cioè la differenza tra i prestiti erogati e l’ammontare dei depositi della clientela, resta negativo per circa 200 miliardi, il massimo dal 2019 calcolato sull’intera platea delle aziende creditizie nazionali.
Non c’è inflazione che tenga, allora. Il denaro fermo in banca a tasso zero perde valore di mese in mese, ma questo non basta a scoraggiare la maggior parte dei correntisti. Ecco perché quest’anno il sistema bancario nel suo complesso si prepara a iscrivere a bilancio centinaia di milioni di ricavi in più rispetto al 2021. A dire il vero, gli istituti hanno visto crescere il margine d’interesse già tra gennaio e giugno di quest’anno, un periodo segnato dai primi movimenti al rialzo dei tassi. L’aumento è stato del 7 per cento circa per i sette gruppi più grandi, con Intesa, il leader di mercato, che ha chiuso il semestre con 4,04 miliardi di interessi netti, il 2,5 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre per Unicredit l’incremento è stato di oltre il 9 per cento.
La crescita dei profitti sembra destinata ad accelerare nell’ultimo trimestre dell’anno, ma nel medio termine non mancano le incognite. La prima è strettamente legata ai prossimi sviluppi politici. Le banche italiane custodiscono oltre 250 miliardi di Btp, un tesoro destinato comunque a perdere di valore se le misure di finanza pubblica del nuovo governo dovessero portare a un aumento del rapporto debito-Pil e quindi a un allargamento dello spread. Senza contare che il rialzo dei tassi, destinato a proseguire ancora per mesi, non può che provocare un ulteriore calo delle quotazioni dei bond già in circolazione sul mercato. Eventuali svalutazioni dei titoli di stato in portafoglio potranno essere in parte riassorbite senza pesare sul conto economico. Nel futuro prossimo, però, il rischio Btp non potrà non condizionare il futuro delle banche nostrane, che comunque, nei prossimi mesi, saranno chiamate ad affrontare un ulteriore rallentamento dell’economia.
Nello scenario peggiore, il moltiplicarsi delle crisi aziendali potrebbe causare un aumento delle perdite legate a crediti difficili o impossibili da recuperare, proprio come è successo di recente ai tempi del Covid. Durante la pandemia, lo Stato si è fatto carico delle difficoltà del sistema produttivo, aprendo l’ombrello delle garanzie pubbliche per le imprese che non erano più in grado di far fronte agli oneri (interessi e capitale) dei prestiti bancari. Adesso che si è chiusa l’emergenza, Roma rischia di dover onorare fideiussioni per svariati miliardi di euro a favore di aziende che non sono in grado di restituire i finanziamenti a suo tempo ricevuti. Per evitare gli effetti negativi di questa bomba finanziaria, il governo ha preparato un piano che punta a spalmare nel tempo il rischio trasferendo i crediti a rischio dalle banche a un gestore controllato dal Tesoro, la società Amco. Per chiudere la partita serviranno anni, ma intanto si profilano già le nubi di una nuova recessione. Sarà lo Stato, con il denaro dei contribuenti, a proteggere un’altra volta le aziende a suon di bonus e garanzie? In caso contrario si moltiplicheranno i crediti a rischio. E allora la festa sarà davvero finita anche per i banchieri.



