Il fallimento della struttura che dava lavoro a un quarto degli abitanti ha spopolato la città. E lasciato ombre sul dissesto del Comune. Che ora punta sul turismo con non poche difficoltà

È bastato che il casinò fallisse perché gli abitanti di Campione d’Italia diminuissero del 10 per cento. D’altra parte, fino al 2018, anno della chiusura, 490 dei duemila residenti erano impiegati della casa da gioco. E dei 102 dipendenti di allora, il Comune oggi ne ha appena 17. Insomma, di colpo, oltre un quarto dei cittadini di questa minuscola exclave italiana in territorio svizzero ha perso il lavoro. Il casinò ha riaperto poco più di un anno fa, dopo che la Cassazione ha annullato la sentenza del Tribunale fallimentare di Como. Ma sono stati riassunti solo 174 lavoratori. E il Comune è rimasto con i suoi 17 impiegati superstiti.

 

«I dipendenti comunali sono stati in parte ricollocati in altre amministrazioni pubbliche, ma fuori da Campione», spiega Roberto Canesi, sindaco dal 2020, «mentre in tanti hanno trovato lavoro per proprio conto; soprattutto in Svizzera, dove alcuni già erano domiciliati. Nel frattempo, c’è stato anche un turnover perché altre persone sono venute a vivere qui».

 

Andare a lavorare fuori da Campione d’Italia significa vedersi ridurre significativamente la retribuzione. Anche un dipendente pubblico qui viene pagato in maniera proporzionata al costo della vita, ovvero al livello svizzero. E questa è solo una delle tante peculiarità di un piccolissimo Comune che, nonostante faccia parte della provincia di Como, si può raggiungere solo attraversando un breve tratto di territorio svizzero. È un posto dove lo stesso municipio ha recapiti telefonici sia con prefisso italiano (031) sia con prefisso svizzero (+41). Gli stipendi, anche dei dipendenti pubblici, vengono pagati in franchi svizzeri, che sono la valuta ufficiale assieme all’euro. Il fisco italiano, inoltre, concede una riduzione fino al 50 per cento delle imposte sui redditi; mentre tutta l’area è esente dall’Iva.

 

La singolarità maggiore, però, è che l’intera economia locale si è basata per decenni sull’attività del casinò, aperto ininterrottamente dal 1933. E il suo fallimento non è stato causato dal calo di clientela, che negli ultimi anni ha interessato anche gli altri tre casinò italiani (Venezia, Sanremo e Saint-Vincent). La struttura sarebbe stata ancora in attivo, anche con i margini ridotti, se non avesse avuto un cappio al collo: l’impegno di versare al Comune la bellezza di 40 milioni di euro all’anno. Cifra che da decenni, ormai, non corrispondeva al giro d’affari. Ma il Comune, che peraltro è il proprietario della stessa struttura, non l’ha mai ridimensionata. E così ha portato l’azienda al fallimento perdendo la sua gallina dalle uova d’oro.

 

Al momento della chiusura, il casinò aveva accumulato debiti per 130 milioni di euro, dei quali 30 proprio con il Comune. Questo, a sua volta, aveva debiti per 41 milioni. Oltre un terzo era costituito da stipendi arretrati dei suoi dipendenti: più di 16 milioni. È emerso come l’aver lasciato fallire il casinò avesse arrecato danni a tutti. E per raggiungere un concordato con i creditori è stato necessario rinunciare a molti dei privilegi ai quali erano tutti abituati.

 

Ma proprio alcuni di questi benefit potrebbero diventare un boomerang in grado di capovolgere la situazione. Indagando sul dissesto finanziario del Comune, un consulente della Procura di Como avrebbe individuato delle somme che i dipendenti avrebbero percepito senza averne diritto. Si tratta di assegni ad personam che erano stati concessi nel 1996 appunto per compensare il maggiore costo della vita. Tutti coloro che erano in servizio tra il 2013 e il 2017 hanno ricevuto una lettera del Comune che chiede di restituire quelle somme. E qualcuno parla di cifre che vanno dai 40 mila ai 60 mila euro per ogni dipendente. Che erano oltre cento.

 

È facile immaginare che questa vicenda non si risolverà in tempi brevi. Avvocati e tribunali avranno un bel da fare. Sul fronte del casinò, invece, sembra tutto tranquillo, almeno finora.

 

«I lavoratori hanno mostrato grande senso di responsabilità», dice Mimma Agnusdei, della Cgil di Como, «hanno accettato anche un contratto che ignora alcune prerogative riconosciute al settore. Ma l’obiettivo per tutti era riaprire. Anche se non c’era alcuna garanzia che venissero riassunti quelli che avevano lavorato lì perché, per legge, la nuova gestione ha dovuto indire un bando pubblico. E gli ex dipendenti non avevano alcun vantaggio, se non l’esperienza che aumentava il punteggio. Al momento, tutti gli impegni presi dall’azienda sono stati mantenuti. Quando si sarà conclusa la fase del concordato, ci aspettiamo che riprendano le assunzioni. Forse non si potrà arrivare al numero di dipendenti di cinque anni fa, ma quello attuale è comunque un organico insufficiente».

 

L’obiettivo del sindaco, però, è fare sì che «Campione d’Italia non sia più casinò-centrica e che punti, invece, sul turismo». Tutto deve fare i conti, in ogni caso, con le dimensioni del territorio: l’intero Comune si estende su appena cinque chilometri quadrati, per gran parte in montagna. E il nuovo edificio del casinò, inaugurato nel 2007, da solo con i suoi nove piani arriva a 55 mila metri quadrati… «Sicuramente molti visitatori verranno ancora per giocare nel casinò più grande d’Europa», continua il sindaco Canesi, «ma il nostro lago è un’attrazione di grande efficacia e abbiamo un notevole patrimonio artistico. Basta pensare ai maestri campionesi, quegli scultori e quei costruttori che nel Medioevo si fecero apprezzare in tutta la Lombardia».

 

Il prossimo anno, intanto, è in programma la celebrazione dei primi 80 anni dalla liberazione dal fascismo: nel 1944, questo fu il primo Comune a disconoscere il regime.