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Economia
dicembre, 2023

La riforma del fisco del governo Meloni è pensata per piacere a evasori e partite Iva

Il tributarista Tommaso Di Tanno analizza per l'Espresso le modifiche del sistema tributario. Tra Flat tax, imprese senza stimoli e cancellazione dei crediti inesigibili. Molte ombre e poche luci

Si riduce il cuneo fiscale. Così come il numero degli scaglioni Irpef, cioè la tassa che i lavoratori dipendenti e i pensionati pagano all’Erario. Viene cancellata l’agevolazione Ace, che spronava le aziende a crescere. Sarà introdotta la Global Minimum Tax al 15 per cento per le multinazionali, che varrà mezzo miliardo di nuove entrate. Via libera alla flat tax: in prospettiva applicata a tutti. Le novità introdotte dalla riforma del fisco del governo Meloni, scritta dal viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, sono così tante da rivoluzionare il rapporto tra cittadino e Stato. Un mutato scenario con qualche luce e molte ombre, come racconta a L’Espresso il tributarista Tommaso Di Tanno, autorità in materia fiscale e docente di Diritto tributario: «Da tempo il sistema fiscale italiano necessita di una riforma strutturale. Quindi, bene la riorganizzazione, ma la riforma è troppo sbilanciata sul fronte contributivo».

 

Flat tax
In linea teorica la riforma fiscale intende superare il modello di imposta progressiva, secondo la quale i ricchi pagano, in proporzione, più tasse dei poveri, per tendere invece a un modello di tassa piatta. Introdurla pienamente è impossibile, non solo perché la progressività è prevista dalla Costituzione, ma anche perché se tutti i lavoratori dipendenti, le aziende, i pensionati e i liberi professionisti pagassero il 15 per cento di tasse sui redditi le casse pubbliche dovrebbero dire addio a 70-80 miliardi di euro l’anno. E chi pagherebbe gli stipendi di medici, infermieri, dipendenti di Comuni, enti pubblici e ministeri, così come gli insegnanti? Sarebbe un disastro. Oltre al problema del mancato gettito, l’introduzione della flat tax erga omnes, rafforzerebbe ulteriormente la tendenza a regimi sostitutivi e forfettari a favore di determinate categorie. I primi a trarne vantaggio sono stati – perché la flat tax per loro già c’è – gli autonomi e gli imprenditori individuali che guadagnano fino a 85 mila euro: «È un regime che guarda al passato, tipico di un’economia da Paese sottosviluppato, con piccole attività commerciali e professionali, come quelle di Pakistan o Bangladesh, non certo adatto a una nazione che punta a stare fra i Paesi più avanzati al mondo», spiega Di Tanno, che non fa sconti al governo.

 

Quando negli anni Novanta del secolo scorso alcuni Paesi in transizione dall’economia pianificata a quella di mercato, in primis la Russia, adottarono la flat tax, lo fecero soprattutto per motivi di semplicità amministrativa. Si trattava di economie in cui, fino a poco prima, la differenza tra redditi lordi e netti d’imposta non esisteva e applicare imposte progressive sembrava incomprensibile oltreché complicato. Da allora la gran parte dei Paesi dell’ex Urss che avevano adottato la flat tax l’hanno poi abbandonata, istituendo una progressività per scaglioni, come in Serbia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia. «Forme di forfettizzazione su attività marginali esistono ovunque, ma in questo caso è necessario mettersi d’accordo sul significato di “marginale”. Dobbiamo domandarci: quando un reddito da 85 mila euro è marginale?», argomenta il tributarista che continua: «Se per un piccolo commerciante si tratta effettivamente di un reddito netto contenuto, non lo è per un professionista (un medico, un architetto, un commercialista, un consulente): perché lordo e netto tendono a coincidere. E il regime forfettario deve anche essere limitato nel tempo. Anche un piccolo commerciante, al quale è possibile applicare uno sconto nel periodo di avvio, deve poi essere in grado di uscire dal regime di favore e stare sul mercato affrontando il carico fiscale come tutti gli altri cittadini. Sfido chiunque a dimostrare che l’applicazione della flat tax a commercianti e professionisti porti un beneficio per all’economia italiana. Non è vero, lo contesto».

 

Tommaso di Tanno, tributarista

 

Riduzione delle aliquote
L’ampia parte della delega fiscale dedicata alla tassa piatta, porta appresso anche la tendenza alla riduzione delle aliquote fiscali che, a sua volta, comporta una riduzione del gettito. Dal momento che la legge delega prevede che la realizzazione della riforma sarà a costo zero per le casse pubbliche, c’è da capire dove il governo pescherà il denaro mancante. «Si potrebbe estendere la progressività ad altre imposte, per esempio alle successioni e donazioni», afferma Di Tanno, girando il coltello in una materia sensibile per la destra e i suoi partiti. La tassa di successione, abolita nel 2001 da Silvio Berlusconi, è poi stata reintrodotta (in forma poco incisiva) dal successivo governo Prodi. Ora, il governo Meloni ha prima avanzato la possibilità di aumentarla, giocando soprattutto sulla progressività del contributo, poi ha bloccato tutto: forse perché una simile proposta non piaceva a Forza Italia. Eppure avvicinerebbe l’Italia al resto d’Europa: perché mentre da noi, al netto di una molteplicità di esenzioni, l’imposta va dal quattro all’otto per cento, in Germania va dal sette al 50 per cento, in Francia è tra il cinque e il 60 per cento.

 

Imprese senza stimoli
Sul fronte del reddito d’impresa si profila un Fisco poco amico della crescita economica che, come nel caso della flat tax, sembra favorire le attività imprenditoriali più piccole, ma anche quelle meno dinamiche e con meno capacità di affrontare le sfide di un mercato del lavoro in rapida evoluzione: «Non ci sono strumenti a favore della crescita dimensionale e neppure per sostenere investimenti in ricerca e sviluppo», commenta il tributarista. Al contrario la riforma sembra sorridere alle imprese che investono in beni strumentali (cioè uffici, magazzini, auto aziendali, computer, furgoni, macchinari) e aumentano l’occupazione: «Ma è uno specchietto per le allodole», dice Di Tanno che spiega: «L’occupazione cresce nelle aziende sane, proiettate verso il mondo e caratterizzate da un’alta qualità degli investimenti, ma non c’è una premialità in tal senso e neppure un beneficio per le aziende che rafforzano il proprio patrimonio. Al contrario c’è l’eliminazione dell’Ace, cioè la deduzione fiscale a favore delle imprese che rafforzano il capitale». Una mossa che farà risparmiare allo Stato 4,5 miliardi di euro nel ’24, soldi con cui si pensa di finanziare la gran parte delle novità introdotte nella riforma fiscale. «Ma non si premia il consolidamento patrimoniale, non si favoriscono i processi di fusione e acquisizione, che sono la base per far crescere le aziende (e quindi rafforzare l’economia)». L’eliminazione dell’Irap vale un gettito netto di 15 miliardi e, per il principio secondo il quale i conti devono sempre tornare, qualcuno dovrà pur pagare: «Il governo offre una garanzia a una serie di soggetti sui quali non peserà il taglio Irap. Da quell’elenco mancano le società di capitali, ovvero spa e srl. Detto altrimenti: le medie e grandi aziende pagheranno per tutti. Piace al popolo, ma impoverisce il Paese».

 

Lotta all’evasione
Fulcro del binomio “lotta all’evasione e pace fiscale” sarà l’introduzione del concordato biennale inizialmente da sperimentare su due milioni di partite Iva. Funziona così: l’Agenzia delle Entrate, sulla base dell’incrocio di informazioni provenienti da diverse banche dati, propone al contribuente di pagare un po’ più tasse rispetto al passato e, in cambio, promette di lasciarlo in pace. «Ma le informazioni in mano all’Agenzia delle Entrate sono insufficienti, perché partono dalle dichiarazioni (statisticamente infedeli) del contribuente. Servirebbe un lavoro di scandaglio che tenga conto del tenore di vita degli interlocutori». Secondo il tributarista, sarebbe per esempio interessante capire se chi affitta barche per lunghi periodi di tempo – ormeggiate in qualche porto italiano, battenti bandiera straniera e di proprietà di sconosciuti signori (forse dei prestanome) – non sia per caso anche il beneficiario effettivo delle stesse. «Senza queste verifiche preventive, l’obiettivo del concordato diventa quello di trovare un accordo con queste categorie, non di combattere l’evasione».

 

La riscossione
La parte positiva della delega fiscale è invece l’accorciamento dei tempi di riscossione dell’omesso versamento dei tributi dichiarati Irpef e Iva, offrendo all’Agenzia delle Entrate maggiori strumenti per rendere immediata la riscossione. «Peccato che questa parte della riforma entri direttamente in conflitto con un recente provvedimento che consente ai contribuenti infedeli passibili di sanzioni penali di ritardare il momento del versamento stesso non più all’udienza di primo grado, bensì fino alla sentenza di appello», aggiunge Di Tanno.

 

Crediti inesigibili
«Bene anche la decisione di cancellare definitivamente la stragrande maggioranza dei 1.150 miliardi di crediti inesigibili», dice Di Tanno. Lo stesso direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, in passato aveva sostenuto che, di quei crediti, solo 100 miliardi sono effettivamente lavorabili, mentre la restante parte interessa persone decedute e imprese fallite dalle cui tasche non è più possibile scucire neanche un centesimo: «Tuttavia quella cifra mostruosa finisce sempre, puntualmente, sul tavolo di qualche commissione internazionale che suggerisce all’Italia di ripianare parte dei debiti nazionali semplicemente andando a riscuotere quei mille miliardi e rotti», spiega Di Tanno. Azione, però, impossibile. «È quindi giusto fare piazza pulita. Ciò che, fino a oggi non è stato possibile fare, perché comporta una procedura molto complessa e responsabilità eccessive che nessuno si vuole prendere». Inoltre, grazie alla riforma, l’accertamento obbligherà a mettere sullo stesso piano amministrazione finanziaria e contribuente, «che ha il diritto a un contraddittorio preventivo e obbligatorio», afferma il tributarista, soddisfatto anche per l’estensione dell’adempimento collaborativo alle imprese di medio-grandi dimensioni. Così le aziende con un dubbio in materia fiscale potranno ragionare con l’amministrazione pubblica prima di redigere il bilancio o firmare un contratto, «permettendo al Fisco di mettersi in sintonia con la modernità, fatta di una molteplicità di nuovi strumenti utilizzati dalle imprese più all’avanguardia e di cui, per ora, l’amministrazione pubblica è spesso all’oscuro».

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