Con le Alpi a secco crolla la produzione idroelettrica. Mentre al nord l’agricoltura rischia il tracollo per effetto del caldo e della carenza d’acqua. Ma i ministri litigano su incarichi e poltrone per affrontare la crisi

Con lo sguardo accigliato di Giorgia: «Matteo, vuoi fare il super commissario?». E non s’è capito se la presidente Meloni volesse davvero bacchettare il vicepresidente Salvini oppure stuzzicarne la vanità, cercarne la complicità. In queste circostanze, quando la situazione è seria, e la siccità lo è in misura drammatica, la reazione della politica italiana non è mai grave, schietta, precisa.

 

C’è sempre qualcosa soltanto di abbozzato, ipotesi di scuola, nient’altro che suggestioni, si dice. Eppure una decina di giorni fa, proprio la presidente Meloni ha voluto convocare una cabina di regia permanente e urgente a Palazzo Chigi per intervenire in fretta, per contenere i danni della penuria d’acqua e, soprattutto, per aggirare la gramigna di ogni governo che è la burocrazia.

 

Un ministro tira l’altro, un sottosegretario se ne porta un altro, ciascuno con un carico di velleità dinanzi ad almeno 9 miliardi di euro da spendere. Così la cabina di regina è diventata la cambusa di una nave in festa. Meloni certo, Salvini dunque, e anche il ministro Francesco Lollobrigida per l’Agricoltura, e il ministro Nello Musumeci perché ha la competenza della Protezione civile che muove le botti con l’acqua, e il ministro Raffaele Fitto per le Politiche di coesione e ovviamente il Piano nazionale di ripresa e resilienza, e il ministro Roberto Calderoli per le Autonomie in senso largo, e il ministro Gilberto Pichetto Fratin per l’Ambiente, e la viceministra Vannia Gava invitata dal ministro Pichetto Fratin per le sue deleghe specifiche, e il sottosegretario Alfredo Mantovano per la presidenza del Consiglio, e il sottosegretario Alessandro Morelli perché programma e coordina la politica economica con il dipartimento Dipe. Il tempo di sedersi e già s’era fatto tardi.

 

Salvini s’è proposto subito per gestire la (mega) cabina di regia. Lollobrigida ha precisato che la cabina di regia è gestita dalla presidente Meloni e al massimo Salvini può fare il supplente. I Fratelli d’Italia vivono un periodo di bulimia istituzionale e volevano la cabina di regia e il commissario straordinario. I leghisti hanno rintuzzato per non lasciare in secca Salvini: commissari semplici, non straordinari, magari più di un commissario, però per impegni ben definiti. La viceministra leghista Gava: niente sovrastrutture burocratiche, si tratta di commissariare alcune opere strategiche. Il forzista Pichetto Fratin non si è scomposto, è il ministro non fungibile, si occupa di Ambiente, controlla le Autorità di bacino, si passa di là. C’è una scala delle priorità, non si deroga: l’acqua serve, in ordine, per la sanità, le abitazioni, l’agricoltura e infine per l’energia. Non stupisce che la produzione idroelettrica sia in calo e sia destinata a calare sempre di più.

 

Al momento il governo ha deciso di «potenziare gli osservatori delle Autorità di bacino; semplificare la normativa per il riuso delle acque e la dissalazione; manutenere e sghiaiare gli invasi esistenti; censire le derivazioni; contrastare i prelievi abusivi». Anche la Regione Lombardia s’è fatta la sua cabina di regia. Quella di Palazzo Chigi è più grossa. Non sai mai cosa può succedere finché non ne esci. Intanto non piove abbastanza. E va sempre peggio.

 

L’anno scorso, l’anno della grande crisi delle materie prime, la carenza d’acqua ha avuto un impatto rilevante anche sul bilancio energetico del nostro Paese. I bacini alpini hanno sofferto per la scarsità di neve. E l’inverno arido che stiamo vivendo ha prolungato la fase eccezionalmente secca cominciata già alla fine del 2021. L’anno scorso, la siccità si è portata via più del 40 per cento della produzione idroelettrica, passata da 46 mila a 28 mila gigawattora, cioè 11 per cento della produzione nazionale di energia, cinque punti in meno rispetto al 2021. Nel 2023 lo scenario non è cambiato. A gennaio, il contributo dalle centrali alimentate ad acqua è sceso ancora a 2.082 gigawattora, contro i 2.335 gigawattora del primo mese dell’anno scorso. Questi dati appaiono ancora più preoccupanti se confrontati con quelli del biennio precedente, quando a gennaio dagli impianti idroelettrici erano arrivati 3.476 gigawattora nel 2020 e addirittura 3.749 nel 2021.

 

«Il quadro climatico sta determinando in questi ultimi 12 mesi una siccità molto severa, a tratti estrema», commenta Giuseppe Argirò, amministratore delegato della Compagnia Valdostana delle Acque (Cva), a cui fa capo uno dei più importanti parchi idroelettrici italiani, con 6 dighe e 32 centrali. La scarsità d’acqua, prevede Argirò, «potrebbe determinare una stagione estiva in cui dovremo far fronte a danni rilevantissimi per la produzione elettrica, per l’agricoltura e la zootecnica, oltre che per il sistema industriale nel suo complesso, che necessita di acqua per funzionare, comprese in Italia le centrali termoelettriche e in Francia quelle nucleari».

 

Con le Alpi a secco, i grandi gruppi energetici nazionali sono costretti a rivedere i loro piani sulle rinnovabili. Nel 2022, la milanese A2A, che sfrutta tra l’altro gli invasi disseminati nelle montagne lombarde, ha visto crollare del 38 per cento la produzione garantita dalle sue dighe. Viaggia al ribasso anche Enel, con un meno 34 per cento da gennaio a settembre. E visto che nell’ultimo trimestre la penuria d’acqua è aumentata ancora, il dato di fine 2022 non farà segnare un’inversione di rotta.

 

Il futuro prossimo preoccupa, se possibile, ancora di più. I produttori di energia nazionali, gran parte dei quali sono a controllo pubblico (Stato, Regioni, Comuni) si dicono pronti a investire miliardi per affrontare un clima che, nelle previsioni quasi unanimi degli scienziati, alle nostre latitudini sarà sempre più arido. Finora però sulle strategie delle aziende era sospesa la spada di Damocle delle gare per il rinnovo delle concessioni per la gestione degli impianti. I giochi si sono riaperti di recente. L’Unione europea ha ritirato la procedura di infrazione contro i Paesi, tra cui l’Italia, che non si erano ancora adeguati alla richiesta di Bruxelles in materia di concorrenza nel settore della produzione idroelettrica. «Sono certo che il governo ne prenderà atto e si assumeranno le scelte conseguenti in modo da far ripartire gli investimenti bloccati da anni in attesa che si chiarisse la questione delle concessioni», dice Argirò.

 

Per adattarsi al clima che cambia servirà comunque tempo e denaro, perché nel caso delle centrali idroelettriche si tratta di intervenire per aumentare efficienza e sicurezza di impianti che hanno un’età media di 70 anni. Non è solo questione di energia. L’intero sistema va ripensato per garantire forniture costanti di acqua destinata all’agricoltura e anche all’uso cosiddetto civile, cioè per bere, cucinare e lavarsi. «Il flusso di investimenti è in aumento già da qualche anno», segnala Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, l’associazione di categoria delle aziende che gestiscono servizi idrici, ambientali ed energetici. «Adesso però – dice Colarullo – è quanto ormai urgente un salto di qualità, perché la penuria di pioggia di questi due anni ci ha messo di fronte a una realtà a cui non siamo preparati». Il Pnrr stanzia in totale 4,38 miliardi per la gestione delle risorse idriche, di cui 2 miliardi per le infrastrutture primarie, cioè in sostanza per gli acquedotti, 900 milioni per la riduzione delle perdite nella rete, 800 milioni per i sistemi di irrigazione e altri 600 milioni alla voce fognature e depurazione. Il problema, però, è che i soldi del Pnrr andranno a migliorare strutture già esistenti, ma non finanzieranno nuove opere, di cui invece c’è un gran bisogno. Senza contare che per gran parte dei progetti ammessi a finanziamento (circa 150) non sono ancora state avviate le gare.

 

Ai primi posti di un’ideale lista delle priorità ci sono gli invasi dove raccogliere l’acqua piovana per poi utilizzarla nei periodi meno piovosi. La Spagna riesce a riutilizzare più del 30 per cento della pioggia, che invece in Italia per quasi il 90 per cento non viene trattenuta al suolo e si disperde. «Senza invasi siamo abbandonati al nostro destino», sintetizza Stefano Calderoni, presidente del Consorzio di bonifica Pianura di Ferrara. «L’acqua arriva al mare prima che riusciamo a utilizzarla», dice Calderoni. Il “Piano Laghetti“, preparato dall’Anbi (Associazione nazionale consorzi di bonifica) insieme a Coldiretti, punta a realizzare oltre 200 piccoli bacini artificiali. I progetti però sono ancora in attesa dei finanziamenti pubblici. E poi c’è la burocrazia. La lunga trafila di autorizzazioni che rallenta tutti gli interventi. «La speranza è che la nuova figura del commissario annunciata dal governo riesca a trovare una sintesi per passare in fretta dalle parole ai fatti», è l’auspicio di Stefano Francia, presidente di Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) dell’Emilia Romagna.

 

Servirà tempo, comunque, perché gli investimenti producano un qualche effetto concreto. In Italia il 55 per cento circa dei consumi di acqua (in totale circa 26 miliardi di metri cubi all’anno) è destinato alle irrigazioni. E se la pioggia è scarsa per molti mesi di fila, come è successo nel 2022 e anche in questi primi mesi del 2023, il rischio di compromettere le colture diventa molto alto.

 

La situazione è difficile in particolare al Nord, nel bacino del Po, un’area dove le risorse idriche sono state sempre molto abbondanti. Nella Lombardia occidentale, nelle campagne intorno a Milano, tra i Navigli e il canale Villoresi, la siccità ha già ridotto del 10 per cento le aree coltivabili. Non c’è acqua per tutti. E a farne le spese sono soprattutto le colture che ne assorbono di più, come l’ortofrutta e il riso. Molti agricoltori si orientano su prodotti che soffrono meno la carenza d’acqua: frumento e orzo invece del mais. Il cambio in corsa non è facile. Per i frutteti, per esempio, servono investimenti di lungo periodo. E così i danni diventano irreparabili. Nella provincia di Ferrara, dove si concentra buona parte della produzione nazionale di pere, un altro anno di siccità darebbe il colpo di grazia al raccolto.

 

Con i bacini dei grandi laghi del Nord (Maggiore, Como, Iseo e Garda) svuotati molto oltre la metà, i tecnici sono costretti a studiare soluzioni di emergenza per limitare i danni. «Nessuno era pronto ad affrontare una situazione così grave», dice Valeria Chinaglia, direttore generale del consorzio di bonifica Ticino Est Villoresi. «Già a settembre dell’anno scorso ci siano mossi per chiedere un finanziamento statale per realizzare un sistema di paratoie che consentano di trattenere l’acqua nei Navigli che, a differenza del Villoresi, non hanno un fondo impermeabilizzato», spiega Chinaglia. «Non abbiamo però ancora avuto risposta. E siamo stati tagliati fuori anche dai fondi del Pnrr, che hanno privilegiato sistemi di irrigazione diversi da quello prevalente nelle nostre zone».

 

A volte fa più danni la burocrazia della siccità. E allora molti agricoltori decidono di fare da soli. Al Nord si moltiplicano i pozzi privati, che per legge devono essere autorizzati dalle provincie. Tutti scavano alla ricerca dell’acqua. Con il rischio che le falde già sofferenti si impoveriscano ancora di più. Servirebbero più controlli. Una chiara divisione dei compiti tra enti locali e centrali. Intanto il governo discute e si divide. E i fatti restano un miraggio. Come la pioggia nel deserto. Col guaio che il deserto è arrivato quasi fino a noi.