Il 60 percento delle donne che arriva nei Centri antiviolenza non ha un lavoro. Per questo gli strumenti di sostegno al reddito diventano fondamentali per supportare chi esce dalla violenza

«Tante volte ho pregato per rimanere viva. Ricordo una sera, era agosto, mio marito è tornato a casa ubriaco. Ha iniziato a insinuare che avevo un altro, non era vero, ma qualsiasi cosa dicessi era sbagliata. Serviva solo a farmi picchiare di più. Quando gli ho detto che me ne sarei andata, ha chiuso a chiave la porta della stanza da letto e mi ha lasciata lì. Senza cellulare. È stato il primo momento in cui ho pregato per rimanere viva».

 

Così racconta Doris, nome di fantasia, che a lungo ha sopportato le violenze del marito. «Ci ho messo tempo a lasciarlo. Ma ero sola con tre figli, senza soldi». Doris lavorava come donna di servizio, eppure lo stipendio finiva nelle mani del marito. «Era l’uomo di casa, pensava lui ai conti. Solo che i soldi sparivano: ci hanno sfrattato perché non pagavamo l’affitto, non c’era più niente per fare la spesa. Così ho scoperto che giocava d’azzardo. Ogni sera, quando tornava a casa nervoso, trovava una buona scusa per picchiare me e i bambini», racconta con un tono cupo ma distaccato.

 

«Tra le donne che arrivano nei centri antiviolenza, il 60 per cento deve ricominciare a lavorare o avviare per la prima volta un’attività. È un nodo cruciale perché senza indipendenza economica è impossibile uscire dagli abusi», spiega Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna, l’associazione che dal 1989 contrasta la violenza di genere. «Sostenere le donne nella ricollocazione nel mondo del lavoro è fondamentale. Ma in Italia non è facile, soprattutto al Sud, dove il tasso di occupazione femminile è più basso della media nazionale che si attesta attorno al 50 per cento».

 

È d’accordo anche Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente dell’associazione Telefono Rosa che sostiene le vittime di violenza e i loro figli: «Troppe non lavorano o se hanno uno stipendio non lo gestiscono. Questo rende complesso l’allontanamento dal partner anche nei casi di abusi. Così, per supportare chi esce dalla violenza sono importanti gli strumenti di sostegno al reddito. Tra questi c’è il Microcredito di libertà, a cui abbiamo aderito».

 

Una misura che promuove l’inclusione sociale e finanziaria che il ministero delle Pari Opportunità sta strutturando assieme all’Ente Nazionale per il Microcredito, con il presidente Mario Baccini, Caritas, Abi e Federcasse. Per dare un’alternativa a chi non ha referenze per ottenere un prestito. «A supporto delle donne che vorranno intraprendere un percorso di formazione finanziaria, o aprire un’impresa. Oppure per fronteggiare le spese quotidiane, come quelle mediche, per la scuola, per la casa», spiega Daniela Brancati, a capo del progetto in carico all’Ente Nazionale per il Microcredito: «È fondamentale il lavoro di assistenza svolto dai centri antiviolenza e dalle case rifugio. La misura di supporto finanziario interviene dopo, per fare in modo che anche chi non avrebbe facile accesso al credito bancario possa ricostruire la propria indipendenza, indispensabile per l’autodeterminazione. Perché la violenza economica è tra le più diffuse». È subdola, difficile da individuare. Ma, come si legge nello studio “Violenza economica, facciamo i conti”, pubblicato sulla rivista InGenere.it, si può contrastare con l’istruzione. Sia tradizionale sia finanziaria.

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