Aumentano gli investimenti in titoli di stato. E calano i depositi bancari, che per effetto dell’inflazione hanno rendimenti reali sotto zero. Gli istituti di credito reagiscono con nuove offerte commerciali. Non sempre convenienti per i risparmiatori

Per prime si sono mosse le banche di stazza piccola e media. Marchi come Chebanca, Ifis, Illimity, Tinaba e altri ancora hanno lanciato una campagna di primavera a colpi di offerte e sconti sui conti di deposito. Gli spot che da giorni invadono radio, tv e i nostri smartphone promettono rendimenti fino al 4 per cento annuo e a volte anche di più. Dedotta l’imposta del 26 per cento, il guadagno effettivo per il cliente è in realtà inferiore e va considerato che il risparmiatore deve impegnarsi a non ritirare il proprio denaro per un periodo definito, a volte fino a 60 mesi.

L’offensiva delle banche ha un obiettivo ben preciso, almeno sul piano dell’immagine: presentare questi prodotti come una possibile alternativa ai titoli di stato, in particolare ai Btp, che per le scadenze da tre e cinque anni, garantiscono interessi inferiori al 4 per cento.

In prospettiva, la manovra sui conti di deposito potrebbe rivelarsi molto onerosa per gli istituti di credito, che vedranno aumentare il costo della raccolta. Ne vale la pena, ragionano però i banchieri, perché sui mercati finanziari incomincia a tirare un’aria nuova e nel futuro prossimo diventerà più difficile confermare i risultati da record di questi ultimi mesi. Dall’estate scorsa, infatti, da quando la Bce ha avviato la sua stretta monetaria aumentando per ben sette volte il costo del denaro (l’ultima della serie giovedì 4 maggio), il sistema bancario ha moltiplicato gli utili cavalcando l’onda nuova. Facile, facilissimo: da luglio 2022 il tasso medio sui nuovi finanziamenti alle imprese si è impennato dall’1,26 per cento al 3,9 per cento, mentre il rendimento offerto dagli istituti di credito ai depositanti è passato dallo 0,32 per cento allo 0,61 per cento. La forbice tra ricavi e costi si è quindi allargata e gli istituti di credito hanno fatto il pieno di profitti.

La corsa iniziata nel 2022 è proseguita anche in questi mesi. Intesa, la più grande banca italiana, ha appena annunciato un utile netto di circa 2 miliardi (1,95 miliardi) tra gennaio e marzo, quasi il doppio dello stesso periodo dell’anno scorso. L’Unicredit dell’amministratore delegato Andrea Orcel è arrivato a 2,05 miliardi, contro i 274 milioni del primo trimestre del 2022.

Adesso però, gli analisti si chiedono quanto tempo ancora durerà la festa. A questo proposito, nel rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato nei giorni scorsi, la Banca d’Italia segnala che «le mutate preferenze di impiego della liquidità da parte di famiglie e imprese, coerenti con l’obiettivo di salvaguardare il loro potere di acquisto, stanno determinando una marcata riallocazione della liquidità a favore di attività più remunerative».

In altre parole, un numero via via maggiore di clienti potrebbe decidere di dirottare verso impieghi più remunerativi una parte dei propri risparmi, fin qui parcheggiati in banca con rendimenti prossimi allo zero, mentre la tassa occulta dell’inflazione riduce il valore reale del patrimonio.

Le statistiche più recenti confermano che lo scenario sta cambiando. In base ai dati appena resi noti dall’Abi, l’Associazione bancaria italiana, a marzo la raccolta complessiva da clientela, pari a 1.783 miliardi, era diminuita del 2,9 per cento rispetto a un anno prima. I depositi sono cresciuti a gran ritmo soprattutto nel periodo della pandemia: addirittura più 15 per cento nei due anni a partire da marzo 2020. L’inversione di marcia coincide con il luglio 2022, con l’avvio della stretta monetaria. Poi il calo ha preso velocità: meno 90 miliardi in otto mesi. E tutto lascia pensare che il deflusso sia destinato a proseguire ancora a lungo.

È possibile che una parte del denaro accantonato ai tempi del Covid sia andata a finanziare la ripresa dei consumi, comunque ancora debole per effetto dell’inflazione. La quota di gran lunga maggiore, però, ha preso un’altra strada, come spiega il rapporto sulla stabilità finanziaria di Bankitalia. «A partire dalla scorsa estate la flessione dei depositi a vista è stata accompagnata da una crescita dei flussi verso i titoli di Stato», si legge nel documento appena pubblicato. Come dire che in questi ultimi mesi il Tesoro è diventato il principale concorrente degli istituti di credito. E non potrebbe essere altrimenti, vista l’impennata dei rendimenti delle obbligazioni pubbliche. La convenienza dei titoli di stato è aumentata ancora nel 2023. Il Btp decennale, quello che serve da riferimento per misurare lo spread sul corrispondente titolo tedesco, è arrivato a scavalcare l’asticella del 4,5 per cento, contro il 2,8 per cento di dodici mesi fa. E le scadenze fino a cinque anni che ancora a metà del 2022 viaggiavano ben al di sotto della soglia del 2 per cento sono arrivate, come detto, a sfiorare il 4 per cento. Anche le ultime emissioni di Bot a un anno, tradizionale parcheggio di liquidità, garantiscono un tasso intorno al 3 per cento. Un rendimento di certo più attraente rispetto a quello offerto dalla media dei depositi bancari, che per tutto il 2022 sono rimasti molto vicini allo zero. Poca cosa davvero, a maggior ragione se si tiene conto del prelievo fiscale, che per i conti correnti è pari al 26 per cento degli interessi, mentre per i Btp non supera il 12,5 per cento.

Ecco spiegato, allora, per quale motivo una parte (ancora molto piccola, in verità) della raccolta bancaria è andata a finanziare il debito pubblico.

Siamo solo all’inizio, però. Gli analisti prevedono che nei prossimi mesi l’attrazione fatale degli italiani per i Btp aumenterà ancora. Come annunciato, infatti, a partire da luglio la Bce ridurrà ancora gli acquisti di titoli di stato tricolori. Gli interventi della Banca centrale a sostegno del gigantesco debito di Roma hanno sfiorato i 200 miliardi nel 2021, per poi calare a 94 miliardi nel 2022, mentre per quest’anno si prevede che non supereranno i 50 miliardi. Nei prossimi mesi il Tesoro si troverà quindi costretto a trovare investitori che sostituiscano Francoforte e allo stesso tempo dovrà fare il possibile per contenere il peso degli interessi da pagare ai creditori. I margini di manovra appaiono quanto mai ristretti, visto che Roma, per finanziare una spesa pubblica in costante aumento, nel corso del 2023 dovrà riuscire a collocare nuovo debito per 470 miliardi.

Per centrare l’obiettivo, però, c’è una soluzione a portata di mano: puntare sul risparmio delle famiglie. Dopo il grande successo dei Btp Italia indicizzati all’inflazione, collocati a più riprese negli ultimi anni, il governo si prepara a lanciare un altro titolo studiato apposta per i piccoli risparmiatori. Si chiama «Btp Valore», ma si è conquistato il soprannome di «Btp patriota», perché la maggioranza di centrodestra, come ha più volte dichiarato il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, punta a farne lo strumento con cui milioni di italiani potranno tornare all’ovile dell’investimento tricolore, contribuendo a puntellare le finanze nazionali.

Il nuovo bond, con durata prevista di quattro anni, avrà cedole crescenti e un premio fedeltà per incentivare i sottoscrittori a non liquidare il titolo prima della scadenza. La riposta del mercato è attesa per i primi di giugno, quando è in programma il primo collocamento del nuovo titolo e allora si capirà se le ambizioni del governo hanno un qualche fondamento. D’altronde, solo otto anni fa, nel 2015, famiglie e imprese italiane possedevano il 13 per cento circa dei Btp in circolazione, una quota che nel 2010, prima della grande crisi del debito sovrano, superava il 15 per cento. Adesso invece, secondo le stime più aggiornate, il risparmio domestico copre solo il 9,2 per cento delle emissioni pubbliche a medio-lungo termine in circolazione. I titoli in portafoglio alla Bce sono invece passati dagli 80 miliardi circa del 2015 fino ai 704 del gennaio scorso, il 30 per cento del totale, ma come detto sono destinati a diminuire nettamente già nei prossimi mesi.

Comunque vada a finire, è pressoché certo che una parte del denaro ora dormiente sui conti correnti prenderà il volo verso questi nuovi titoli con targa pubblica e rendimenti allettanti. Le banche, quindi, saranno costrette a giocare in difesa e proveranno a reagire al calo dei depositi aumentando gli interessi garantiti ai clienti. Tra l’altro, gli istituti di maggiori dimensioni entro giugno saranno chiamati a restituire un’altra tranche da 45 miliardi dei prestiti a tassi prossimi allo zero (in sigla Tltro) ricevuti negli anni scorsi dalla Bce. Per far fronte a questo impegno le banche dovranno almeno in parte finanziarsi sul mercato e anche questi oneri supplementari - prevede la Banca d’Italia - avranno un impatto sul conto economico. Poca cosa, tutto sommato. E infatti, a giudizio della quasi totalità degli analisti, nei prossimi mesi la corsa degli utili farà segnare solo un modesto rallentamento. Piuttosto, almeno in prospettiva, la minaccia più grave per i profitti del sistema viene dall’economia reale. Con i tassi che continuano a crescere aumenteranno anche i debitori che non riescono a far fronte ai propri impegni. Una statistica da poco diffusa dalla Bce segnala che già nel dicembre dell’anno scorso il 26 per cento del campione delle banche interpellate aveva dato un giro di vite al credito. Se questa spirale proseguirà, per effetto anche della stretta monetaria imposta dalla Bce, i prestiti a rischio non potranno che aumentare. E sarà peggio per tutti. Banche, aziende e famiglie.