Dossier
Università, il grande esodo degli studenti da Sud a Nord
Continua il calo degli iscritti, nonostante il proliferare degli atenei. E Roma, Milano, Bologna, Napoli e Torino assorbono metà dei ragazzi. Una concentrazione che accentua le diseguaglianze
Se le disuguaglianze si accentuano, come testimonia la protesta degli studenti accampati contro il caro affitti, l’università non fa eccezione. I dati parlano chiaro: cresce il divario tra Nord e Sud, dove gli atenei registrano un calo più pesante delle immatricolazioni. E anche la distanza tra grandi città, dove si addensa il maggior numero di iscritti, e piccoli centri.
Oggi oltre il 50 per cento degli avvii di carriera degli studenti delle lauree magistrali avviene in cinque metropoli: Roma, Milano, Bologna, Napoli e Torino. Una concentrazione senza precedenti, che impatta anche sul costo della vita e sul prezzo degli alloggi. «Si tratta di un processo di lungo corso, cominciato con la crisi globale del 2008-2009. Nel giro di qualche anno nelle università italiane si è passati da 340mila iscritti a 270mila, come se fosse scomparsa la Statale di Milano», afferma Ivano Dionigi, già rettore dell’università Alma Mater e oggi presidente del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, che rappresenta 80 atenei e circa il 90 per cento dei laureati in Italia: «Si è registrato un progressivo incremento delle immatricolazioni fino al 2020-2021, poi un calo del 3 per cento. Una tendenza che si conferma anche quest’anno: per la prima volta anche l’ateneo di Bologna perde iscritti».
Secondo l’ultimo Rapporto AlmaLaurea, le migrazioni per motivi di studio sono quasi sempre dal Mezzogiorno al Centro-Nord: il 28 per cento dei giovani del Sud decide di conseguire la laurea in atenei del Centro e del Nord, mentre il 92 per cento di chi proviene dall’estero sceglie di studiare nel Centro-Nord.
Per capire quanto sia importante potenziare il sistema universitario al Sud basta scorrere le tabelle dell’ultimo rapporto Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che ha selezionato i 180 dipartimenti di eccellenza degli atenei statali per il quinquennio 2023-2027: si vede bene che l’unica grande università del Sud e Isole sopra la media è la Federico II di Napoli, che da qualche anno ha intrapreso un percorso molto virtuoso.
Al di là degli aspetti territoriali, a preoccupare è anche un altro dato: in Italia meno del 40 per cento dei diciannovenni si iscrive all’università. «Abbiamo il 28,5 per cento di laureati tra i 24 e i 35 anni, penultimi in Europa, seguiti solo dalla Romania. La media europea è del 40 per cento, in Francia del 49 per cento», aggiunge il presidente di AlmaLaurea, che sottolinea alcune cause di questa crisi.
«Anzitutto manca la cultura della laurea, inoltre i laureati hanno sfiducia nei confronti del mondo del lavoro e risentono della crisi economica. Tra dieci anni, quando si faranno sentire gli effetti del decremento demografico, le cose peggioreranno. Oggi l’articolo 34 della Costituzione sul diritto allo studio è scritto sulla sabbia», conclude Dionigi.
In un contesto così complicato invertire la rotta è una chimera. Cosa si può fare? Il saggio “Salvare l’università italiana” (Il Mulino), fotografa la situazione e indica alcune possibili vie di uscita per arrestare il declino. Secondo gli autori – Giliberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri – il punto di partenza per restituire agli atenei il loro ruolo culturale, economico e civile è ristabilire il ruolo di coordinamento del ministero dell’Università e della Ricerca.
«Qualsiasi tentativo di salvare l’università italiana che non sia fondato su un ruolo propulsivo e responsabile del centro del sistema non avrebbe nessuna speranza di successo», sottolinea Turri, professore ordinario di Economia aziendale all’Università Statale di Milano e studioso di sistemi universitari. Serve una gestione centralizzata, dunque, per impedire tra le altre cose che aumenti la sperequazione territoriale e la conseguente concentrazione degli studenti in sole cinque grandi città. «Oggi, in Lombardia, il 36 per cento degli iscritti proviene da fuori Regione. È un fenomeno in crescita», aggiunge Turri. Un altro punto cruciale riguarda le disuguaglianze di classe, peggiorate negli ultimi quindici anni: oggi, per le famiglie a basso reddito, mantenere un figlio all’università fuori sede è diventato quasi impossibile.
Senza contare che negli ultimi anni sono cresciuti in maniera importante gli iscritti agli atenei telematici, spesso a detrimento delle piccole università. «Rafforzare il centro non vuol dire che gli atenei decentrati siano di qualità inferiore. Il problema non è la quantità di sedi, la Gran Bretagna ad esempio ne ha di più. Ma bisogna farle lavorare meglio», precisa il docente, che tuttavia nel saggio indica alcuni difetti dell’eccessivo localismo. I tre autori criticano la proliferazione dei corsi di studio, che si rivela come «l’esito di negoziazioni tra gruppi di accademici e solo in subordine è stata orientata verso obiettivi formativi coerenti». E, ancora, «molti atenei assecondano le ambizioni delle élite politiche locali e aprono sedi decentrate in assenza di adeguati investimenti e di garanzie sulla loro sostenibilità».
Il divario tra ricchi e poveri passa anche attraverso la capacità di acquistare materiali didattici di qualità. Oltre alle tasse universitarie e al costo della vita, i libri sono una delle voci critiche del budget degli studenti.
«Il bonus cultura da 500 euro per i diciottenni, che ora è stato abolito, è stato ampiamente utilizzato per comprare testi universitari malgrado non fosse il suo scopo principale», afferma Maurizio Messina, vicepresidente dell’Associazione italiana editori (Aie) e responsabile del gruppo accademico-professionale, che comprende 108 case editrici. Una fetta consistente, più di un quarto, del mercato del libro in Italia. Messina sottolinea come, in un mondo in cui le risorse si restringono, a rimetterci è anche la qualità dei materiali didattici.
Di recente i rappresentanti dell’Aie hanno incontrato i vertici del Mur per avanzare una proposta a sostegno delle famiglie meno abbienti per l’acquisto dei libri, che rischia di diventare un ulteriore deterrente. «Tra gli studenti, sui canali Telegram o nei gruppi WhatsApp, proliferano materiali raccogliticci», conclude Messina: «Non solo fotocopie ma veri e propri patchwork tra pezzi di lezione e appunti, dove è difficilissimo individuare le parti coperte dal diritto d’autore. C’è grande attenzione alla ricerca, molto meno alla didattica».