Un anno fa la multinazionale finlandese annunciò di voler dismettere il sito di Bagnoli della Rosandra. Mentre centinaia di lavoratori restano ancora in bilico, emerge un’ipotesi di reindustrializzazione. Ma la trattativa somiglia a una partita a Risiko

Realizzare motori in quella zona non era più conveniente. Meglio delocalizzare: nella fattispecie tornandosene a casa, a Vaasa, in Finlandia. E pazienza per le centinaia di lavoratori lasciati a casa da un giorno all’altro. Proprio un anno fa, l’annuncio-shock della multinazionale scandinava Wartsila, «leader nella fornitura di soluzioni per la generazione di energia pensate per l’intero ciclo di vita degli impianti per il settore marino e terrestre». Tra i suoi clienti, il colosso navale Fincantieri. Senza preavviso, l’azienda comunicò la cessazione dell’attività produttiva nello stabilimento di Bagnoli della Rosandra, provincia di Trieste: tra le sue quattro sedi italiane, quella più importante anche sotto il profilo occupazionale.

«Dobbiamo centralizzare i nostri asset produttivi in Europa per migliorare ulteriormente la nostra competitività», scrissero i rappresentanti di Wartsila. La fuga improvvisa spiazzò tutti. Disse il governatore del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga: «L’azienda, che aveva addirittura fatto richiesta di fondi Pnrr e ricevuto un contributo dalla nostra amministrazione, aveva più volte ribadito non solo la volontà di mantenere la produzione, ma perfino di implementare lo sviluppo del sito di Trieste».

Sono trascorsi dodici mesi da allora, ma poco o nulla è cambiato. E oggi lo stesso Fedriga reclama fatti, non slogan. Perché resta confermata la dismissione dell’impianto triestino: rimarrebbero in piedi solo le attività di ricerca e service. E così, il 7 luglio scorso, alle quattro ore di sciopero nazionale dei metalmeccanici se ne sono aggiunte altrettante per gli operai di Wartsila. Davanti ai cancelli di Bagnoli della Rosandra si è svolto un presidio per tenere accesi i riflettori sul dramma dei 321 posti di lavoro «in esubero». Senza considerare l’occupazione vacillante nell’indotto.

Alla manifestazione hanno partecipato i segretari nazionali di categoria dei tre sindacati confederali. «La crisi Wartsila rappresenta una vertenza paradigmatica di un Paese che non crede più nell’industria», ha osservato Guglielmo Gambardella della Uilm. Per Massimiliano Nobis di Fim Cisl, «se non riusciamo a trovare una reindustrializzazione per questo stabilimento, dove ci sono infrastrutture, competenze e professionalità, allora non la si può trovare in nessun’altra parte d’Italia». Luca Trevisan (Fiom Cgil) ha invece invocato un «impegno decisivo del governo».

L’ultimo incontro al ministero delle Imprese e del Made in Italy, dov’è aperto un tavolo di crisi, si è tenuto alla fine di giugno. Al momento non vi sono soluzioni concrete all’orizzonte. Tra piste fittizie e proposte inservibili, le speranze di acquisizione e rilancio dello stabilimento si concentrano sull’intervento di ammiraglie come la giapponese Mitsubishi con Ansaldo Energia. I rappresentanti dei lavoratori domandano, inoltre, una proroga sine die del congelamento delle procedure di licenziamento. L’accordo scade il 30 settembre prossimo: dopo che cosa succederà? Il governo propone di allungarlo almeno fino al 31 dicembre. Una partita a Risiko giocata sulla pelle di persone reali.