Mentre Usa, Germania e Francia varano grandi piani per l’autoproduzione, il nostro Paese arranca. Dal governo incentivi fiscali ma non un piano strategico. E Intel va in Polonia

Difficile da credere: che una cosetta di pochi millimetri possa essere il nuovo campo di battaglia tra superpotenze globali. E tanto determinante per il futuro della nostra economia. Ma è quanto sta accadendo con i chip. Gli Stati Uniti hanno avviato un megapiano da 52 miliardi di dollari per produrli in casa e sganciarsi dalla Cina, sempre più minacciosa. L’Europa ha ambizioni simili e sono soprattutto la Germania e la Francia in testa alla corsa per sviluppare nuovi chip. Prodotto necessario ormai per tutto: non solo per i computer, ma anche per le automobili, i sistemi energetici e gli armamenti (tra l’altro).

 

Anche l’Italia prova a giocare questa partita. Seppure con timidezza. Ad agosto, col decreto omnibus, il governo ha varato un pacchetto di incentivi fiscali per le aziende del settore (10 milioni di euro nel 2024 e 130 milioni per ogni anno dal 2025 al 2028). Soldi presi però riducendo da 630 a 520 milioni fino al 2027 il fondo per ricerca, sviluppo e investimento nel settore. E tutto si regge in realtà su un fondo sui chip da 4,1 miliardi creato dal governo Draghi, che pure aveva mire più alte: lavorava per l’arrivo, in Veneto, di una fabbrica di Intel (produttore di chip americano), per un investimento da 4,5 miliardi di euro. Cambiato governo, non se n’è fatto nulla; e ora si teme sia troppo tardi, perché Intel a giugno ha fatto con la Polonia un accordo simile: da 4,6 miliardi di euro, per 2mila posti di lavoro. Qualche giorno fa il presidente della Regione Veneto Luca Zaia si è affrettato a rassicurare che il dialogo con Intel è ancora in corso. Ma per quanto ancora?

 

«Il decreto omnibus è una buona notizia, è un ottimo strumento per sostenere gli investimenti delle aziende. Sembra però difficile che Intel voglia ormai fare una fabbrica anche da noi: ne ha già una in Irlanda e oltre a quella polacca ne sta facendo due in Germania», spiega Paola Pisano, ex ministra all’Innovazione (governo Conte), economista all’università di Torino, con un libro in uscita quest’anno proprio sulla geopolitica dei chip (editore Punto org).

 

Per comprendere cosa (e quanto) c’è in gioco, bisogna vedere il quadro complessivo. Di livello, ormai, planetario. Il piano americano è riuscito nell’impresa di mettere d’accordo, con lo spauracchio cinese, repubblicani e democratici. Gli Usa hanno deciso di sostenere l’offerta interna, introducendo sussidi federali per portare sul territorio nazionale la produzione di chip; hanno anche varato sanzioni per limitare l’import-export, con la Cina, di prodotti hi-tech di importanza critica. Obiettivo dichiarato: la sicurezza, in un duplice senso. Sicurezza della catena di approvvigionamento: durante il Covid-19 la dipendenza da fornitori stranieri, asiatici, ha messo in crisi le catene di produzione di molte fabbriche. Sicurezza nazionale: gli Usa vogliono impedire alla Cina di sviluppare i chip più innovativi, utilizzabili anche per gli armamenti. Preoccupazione non lunare, davanti alla costante minaccia cinese su Taiwan, dove per altro si producono i chip più evoluti, con l’azienda Tmsc. Sarebbe paradossale se la Cina invadesse l’isola con armi dotate di chip progettati negli Usa e costruiti dalla stessa Taiwan.

 

Quanto sta avvenendo è una svolta epocale. L’attuale fase del capitalismo, della globalizzazione, da circa 40 anni si regge sull’aver trasformato la Cina in “fabbrica del mondo”. Adesso le fabbriche tornano indietro. Si parla di reshoring (fabbriche localizzate in patria) e friendshoring (catene di approvvigionamento basate su Paesi amici). È una fase con molte incognite, però, come riflettono vari esperti di geopolitica ed economia; oltre a Pisano, il professore americano Chris Miller, in Chip War, pubblicato nel 2022. La globalizzazione ha portato anche vantaggi, come costi bassi per i prodotti al consumo, soprattutto di elettronica. Una volta finiti gli incentivi americani, i costi potrebbero salire, a danno di consumatori e mercato. Né sembra ipotizzabile ora un divorzio completo dalla Cina in ambito tech (come in altri): «Molte aziende occidentali hanno bisogno di vendere in Cina. I produttori tech occidentali inoltre hanno bisogno di alcune materie prime – le cosiddette terre rare – di cui la Cina controlla l’80 per cento della capacità mondiale di raffinazione», spiega Pisano. L’analogo piano europeo (Chips Act), per potenziare la nostra capacità di creare chip, ha sfide ancora più gravose da affrontare: «Siamo un mercato molto più piccolo di quello Usa; dobbiamo quindi per forza muoverci in sintonia con il piano americano. Al tempo stesso, l’Europa dovrà contare sul proprio perché le aziende europee non siano penalizzate dagli incentivi Usa», dice Pisano. Un equilibrio difficile da sostenere. E ci si mettono anche le differenze tra Paesi europei: la Germania ha scelto l’approccio più muscolare, per regalarsi un nuovo futuro industriale. Ha preparato un pacchetto di sovvenzioni di oltre 43 miliardi di euro per la costruzione di un impianto di Tsmc a Dresda. Globalfounderies e l’italo-francese STMicroelettronics si sono unite invece per creare una fabbrica in Francia.

 

In Italia per ora ci dobbiamo accontentare degli incentivi e del fondo; ma davvero non basta. L’attenzione del governo sembra insufficiente. Tarda da un anno un decreto attuativo per la certificazione delle attività aziendali di ricerca e sviluppo ed è necessario per sbloccare gli incentivi. Poi, conclude Pisano, «a mancare è un vero piano per sostenere la nascita di aziende in questo settore, molto difficile e altrettanto importante».