Transizione energetica

In Italia ci sono tremila giacimenti di terre rare. Ma estrarle non è facile

di Cosimo Palleschi   4 gennaio 2024

  • linkedintwitterfacebook

Tra siti in disuso e potenziali, nel sottosuolo del nostro Paese si trovano 16 su 34 di queste materie prime vitali. Ma problemi di costi, tempi e sostenibilità rendono complicato il loro utilizzo. Anche se la geopolitica rende il loro recupero un tema prioritario

«È in gioco la nostra libertà e sovranità». Così il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, riguardo all’importanza dello sviluppo nel nostro Paese di un’industria estrattiva delle terre rare. Stavolta non si parla di petrolio o gas, ma di quelle 34 materie prime che l’Unione europea ha ritenuto «critiche» per la «twin transition», la transizione ecologica e digitale. Di queste, secondo l’Ispra (Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale) 16 sono presenti in Italia. L’ultima mappatura di questo potenziale minerario risale al lontano 1973; da allora la maggior parte delle miniere nazionali è stata abbandonata. La scelta dei passati governi è stata determinata non sempre dall’esaurimento delle miniere, ma dal fatto che spesso risultava oltremodo costoso renderle tecnologicamente avanzate e sostenibili dal punto di vista ambientale. Era più conveniente importare a basso costo risorse naturali da altri Paesi. Green Deal europeo e guerra in Ucraina hanno ribaltato completamente la situazione, facendo prevalere la sicurezza nazionale sulla convenienza economica.

 

Anche da noi, come negli altri Paesi dell’Unione, è partita una corsa alle terre rare. L’Ispra ha individuato oltre tremila siti tra vecchie miniere abbandonate da decenni, se non da secoli, e nuovi possibili giacimenti. Uno dei più interessanti si trova nell’alto Lazio al confine con la Toscana, dove già negli anni Settanta l’Enel aveva individuato, a circa 3-5 chilometri di profondità, la presenza di fluidi geotermici ricchi di litio. L’azienda australiana Vulcan Energy, specializzata in produzione di litio a zero emissioni di carbonio, ha ottenuto, assieme a Enel Green Power, il permesso di esplorare la zona. Per la lavorazione possono bastare dei tubi che dalla profondità trasportino i fluidi geotermici a un impianto, dove oltre a produrre energia elettrica, venga estratto il litio stesso. A differenza del Sudamerica o dell’Australia, dove la produzione di litio ha gravissimi impatti ambientali, in questo caso l’impianto sarebbe altamente sostenibile.

 

In Liguria, invece, si troverebbe il giacimento di titanio più grande d’Europa e uno dei più importanti al mondo. Nel giacimento di Piampaludo, in provincia di Savona, è presente una riserva accertata di circa 9 milioni di tonnellate di ossidi di titanio. Il giacimento, però, si trova all’interno del geoparco e sito Unesco del Beigua, il che rende quasi impossibile qualsiasi tipo di attività di ricerca nel sottosuolo. Ammesso anche che si possa superare il problema del geoparco, rimane la difficoltà di estrazione a causa della particolare durezza delle rocce del Piampaludo. Prova ne è il fatto che esiste al mondo una sola miniera attiva, a Daixian, in Cina, con le caratteristiche di quella ligure. Questa enorme ricchezza, perciò, rimarrà probabilmente sottoterra.

 

 

Sempre nel Nord Ovest l’azienda australiana Altamin, nel 2019, ha ottenuto dalla Regione Piemonte la licenza per la ricerca di cobalto a Usseglio, nel Torinese, in prossimità di miniere che risalgono al 1753. La stessa azienda australiana, poi, da quasi dieci anni è impegnata per riaprire la miniera di zinco di Gorno, nel Bergamasco, dicendosi pronta a investire fino a 120 milioni di euro e ad assumere 200 lavoratori. Miniera, questa, che da anni è stata, però, trasformata in un eco-museo. Gli australiani, oltre a incontrare la ferrea opposizione della popolazione locale, hanno avuto anche due pareri contrari alla riapertura, nel 2022, prima dal ministero della Cultura e poi da quello della Transizione ecologica. Nonostante questo diniego, Altamin non si è arresa e ha trovato come nuovo socio finanziario il fondo Appian natural resources, pronto a investire 65 milioni di euro in una joint venture per riaprire il sito di Gorno.

 

Un altro grosso limite allo sviluppo di una industria estrattiva tricolore sono anche i tempi burocratici che passano dall’approvazione alla realizzazione di una nuova miniera. Mentre in Cina una miniera viene aperta in 3 mesi, in Ue e in Italia ci vogliono mediamente tra i 15 e i 17 anni. Il governo Meloni però afferma che per rimettere a regime le miniere già esistenti ci potrebbero volere solo dai 2 ai 4 anni.

 

Ma dopo l’estrazione delle materie prime va considerata la loro raffinazione. Attività ben più importante, energivora e spesso altamente inquinante. Ad oggi in Cina viene raffinato l’80% delle terre rare al mondo. Raffinarle sul posto per la Ue sarebbe, quindi, fondamentale sia per evitare di diventare un continente di mera estrazione, come il Sudamerica, sia per poter controllare le risorse stesse. I costi, però, per la costruzione da zero di impianti di raffinazione non inquinanti, come quelli cinesi, potrebbero rivelarsi proibitivi, per non parlare poi dei tempi. La soluzione alla mancanza di terre rare, almeno nel breve medio termine, si potrebbe trovare nel riciclo dei nostri dispositivi elettronici che ne sono pieni, come smartphone e tablet. In Italia, infatti, ogni anno vengono venduti circa 70 milioni di dispositivi elettronici, ma di questi solo 500 mila vengono riutilizzati. È stato calcolato, a maggio 2023, da uno studio di The European House Ambrosetti che il riciclo di questi dispositivi, se incrementato in maniera esponenziale, coprirebbe fino al 32% del fabbisogno annuale di materie prime strategiche. L’economia circolare, perciò, può diventare la nostra migliore arma per ridurre la dipendenza dall’estero e soprattutto dalla Cina.