L'Istat certifica che anche il volano delle costruzioni si è spento. Così il Pil non cresce più, ma la legge di bilancio pensa solo ai sacrifici per tutti. Come per il gasolio e la casa

Crolla l’export, si riducono gli ordini interni, cala il fatturato e rallenta la produzione industriale. In sintesi è la fotografia dell’economia milanese scattata dal segretario generale della Cgil Milano, Luca Stanzione. «È la prima volta dal post pandemia che tutti gli indicatori e i dati tendenziali sono negativi. Qualcosa si è rotto: il modello Milano sta entrando in crisi». E aggiunge che nel secondo trimestre 2024 le ore di cassa integrazione autorizzate hanno sfiorato 4,5 milioni. Soffre soprattutto la manifattura: «Il 49 per cento della cassa integrazione è stato usato dalla metalmeccanica e non è un buon segnale perché questo territorio rischia di perdere la sua vocazione produttiva. Milano non può vivere solo di turismo, eventi e immobiliare, asset di sviluppo effimeri, privi di lavoro di qualità. Mentre la metalmeccanica, legata alla ricerca, all’innovazione, al digitale è il settore più ricco e se va in crisi trascina con sé l’intera economia del Nord, come sta già succedendo».

 

Se il governo sbandiera un’economia che regge – con una crescita del Pil al di sotto dell’1% – e un’occupazione in crescita – nei numeri, ma non nel monte ore lavorate – sono i dati di Federmeccanica a preoccupare: nel secondo semestre la produzione cala dell’1,5% rispetto al primo trimestre e peggiora del 3,4% rispetto all’anno scorso. L’export fa meno 3,2%.

 

Le fonderie, che sono la fonte da cui si approvvigionano le aziende metalmeccaniche, sono in recessione tecnica: la produzione segna -8,9% tendenziale e -3,1% congiunturale. Un calo delle fonderie è indice di un rallentamento di tutto il manifatturiero e per questo il presidente di Assofond, Fabio Zanardi, ha chiesto con urgenza alle istituzioni misure per invertire la tendenza. Invece il governo dice che va tutto bene, che l’Italia cresce. Addirittura la premier Giorgia Meloni si impegna a chiedere all’Europa di rinviare il Green Deal, con una cecità incredibile: se le altre superpotenze spingono sull’elettrico, rallentare la transizione significa perdere ulteriore competitività. Lo hanno capito anche le fonderie: «La maggiore gradualità verso la transizione non deve portare a un rilassamento. La transizione resta uno straordinario fattore di competitività e gli investimenti a tutela dell’ambiente hanno portato le nostre imprese a essere un’eccellenza», dice (inascoltato) Zanardi. Anzi, il nuovo quadro normativo uscito dal tandem ministeriale Agricoltura-Ambiente si sta traducendo in uno stop per la filiera nazionale delle tecnologie elettriche rinnovabili, ovvero per la realizzazione di parchi eolici e fotovoltaici, che si approvvigionano da un’industria nostrana produttrice di pale eoliche, che nel solo ’23 ha generato un volume d’affari da 10 miliardi. Ora anche questa rischia di impiantarsi.

 

Alla luce di tutto questo, preoccupano, ma non stupiscono, i pessimi risultati di Stellantis, che ha aperto al massimo il rubinetto della cassa integrazione: «I veicoli prodotti quest’anno sono 387.600, contro i 567.525 dell’anno scorso. Precisamente le auto registrano un meno 40,7%, i veicoli commerciali meno 10,2%. E anche i due unici stabilimenti in positivo nella prima parte dell’anno, Pomigliano d’Arco e Atessa, registrano un dato negativo», dice Ferdinando Uliano della Fim Cisl, ricordando lo sciopero dell’auto del 18 ottobre, per svegliare i palazzi romani.

 

Del resto il Pil cresce. Seppur di poco. Com’è possibile? Fedele De Novellis, economista e partner di Ref, spiega a L’Espresso che «in l’Italia, ma anche in altri Paesi europei, l’industria risente sia di fattori legati alla domanda (per esempio la politica monetaria non facilita gli investimenti e neppure i consumi di beni durevoli, così come la perdita di posizioni dell’industria tedesca) sia di nuove tendenze dei consumi, tipiche del periodo post pandemia, che fanno emergere una maggiore propensione dei consumatori a spendere in servizi, turismo, beni non durevoli. Negli Stati Uniti, addirittura, stanno studiando la Swiftlation, l’inflazione che si verifica nelle città in cui la cantante Taylor Swift si esibisce: in diversi centri urbani si osservano dei mini boom inflazionistici in presenza di grandi eventi. Al di là del caso specifico, infatti, è vero che esiste una florida economia che si muove attorno a concerti, manifestazioni, partite. Detto altrimenti, sono mutate le priorità: si cambia meno l’automobile, non si risparmia per la prima casa, ma si spende di più per le vacanze e la cura di sé». Un fenomeno che sta sta contribuendo a frenare la domanda all’industria, italiana ed europea.

 

Se l’Italia non è ancora in recessione è grazie all’asset edilizia e ai servizi: «Sulle prospettive dei conti pubblici pende la spada di Damocle del Superbonus, che ha inciso sul deficit pubblico. Però, solo tra il 2024 e il 2027 si manifesterà l’effetto contabile sul debito, visto che in quel periodo saranno esercitati i crediti d’imposta che riducono le entrate di cassa dello Stato. Nel frattempo è indubbio che proprio quei generosi incentivi ci differenziano dalla crisi imboccata dal resto d’Europa». Nel dettaglio, il report congiunturale Ref dice che il valore aggiunto della manifattura si è ridotto dello 0,5% rispetto al primo trimestre (meno 0,7% tendenziale), mentre il tasso di crescita delle costruzioni è stato elevatissimo sino al 2023, ma ha evidenziato una battuta d’arresto nella prima parte di quest’anno. La crescita è stata garantita da un debolissimo più 0,4% dei servizi. La somma di questi tre andamenti settoriali porta a «un’economia poco meglio della stagnazione, che si muove di pochissimi decimi sopra la virgola, e particolarmente frammentata al proprio interno. Per cui abbiamo pezzi dell’industria, soprattutto auto, filiere del tessile e abbigliamento, che vanno molto male; c’è una buona tenuta del turismo, anche se rallenta rispetto alle performance dello scorso anno; e c’è l’incognita dell’edilizia», che potrebbe precipitare parallelamente alla fine dei bonus, visti gli scarsissimi risultati della prima parte del 2024 già certificati da Istat.

 

Fedele De Novellis

 

L’economia italiana è particolarmente sensibile agli incentivi pubblici: ad esempio, nella prima parte dell’anno, gli investimenti delle imprese sono stati rallentati dai ritardi nell’implementazione del piano Transizione 5.0 da parte del ministero del Made in Italy, e questo ha spinto le imprese a posticipare i piani di investimento in attesa degli incentivi, entrati in vigore ad agosto. Questo ha creato un problema di ordinativi per l’industria dell’automazione industriale. Il governo Meloni ha deciso per il 2025 di tornare a bonus edilizi al 36%, invertendo la rotta intrapresa dal governo Monti, che aveva alzato le detrazioni al 50% per interrompere la consolidata prassi dell’attività in nero nelle costruzioni, e accentuata da Conte con il bonus 110. «Può essere che nei prossimi trimestri assisteremo a una contrazione dell’edilizia, se non sarà compensata dalla messa in opera delle infrastrutture inserite nel Pnrr», che tuttavia appaiono in ritardo, visto che a oggi solo il 26 per cento delle risorse è stato speso e non si ha un dettaglio di monitoraggio rispetto all’avanzamento delle misure.

 

Sul fronte della domanda interna, inoltre, il ritardo nei rinnovi contrattuali più pesanti, su tutti quello della meccanica, lasciano poco sperare rispetto alla possibilità che siano i consumi delle famiglie italiane a trainare l'economia, come fa notare Albino Russo, direttore di Coop e curatore del Rapporto Coop, secondo cui le famiglie sono tornate a redditi paragonabili a quelli del 2019 in valore reale, ma aggiungendo 1,6miliardi di ore lavorate. «Vuol dire che il reddito procapite da lavoro dipendente è inferiore del 4% rispetto al 2019 e che ci sono settori, per esempio nel pubblico impiego, sanità e istruzione, in cui il gap è superiore ai dieci punti rispetto a cinque anni fa», dice Russo, che aggiunge: «Nell'economia della singola famiglia, tutto dipende da quante persone lavorano e tutta questa fatica nella tenuta reddituale si riflette nel mondo dei consumi, che sono ostaggio delle spese obbligate (sanità, utenze, spese per la casa) e si manifestano in uno strisciante deconsumismo». Senza mezzi termini il Rapporto Coop abbatte alcuni miti d'antan – casa, auto, cellulare – che hanno tenuto in piedi grossa parte dell'economia industriale e che ora non reggono più.

 

Luca Stanzione

 

In questo scenario destrutturato, fa capolino la manovra economica che, oltre all’azzardata riduzione dei bonus fiscali, punta all’aumento delle accise sul gasolio (al contrario di quanto promesso dalla premier Meloni quando stava all’opposizione). E non solo: «Approveremo una manovra che richiederà sacrifici a tutti», ha tuonato nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Vedremo come la prenderanno i cittadini. Tanto più che i margini per la manovra sono più stringenti del solito perché il piano strutturale di bilancio del governo si incardina sui binari (obbligati) delle nuove regole del patto di Stabilità. Dopo la grande dilatazione dei disavanzi pubblici per contrastare gli effetti recessivi della pandemia, si fa ritorno a bilanci pubblici sostenibili nel medio periodo, che impegnano l’attuale (e prossimo) governo a correttivi per 12 miliardi l’anno per i prossimi 5 anni, nonché a riforme e investimenti mirati al risanamento delle finanze per i futuri 7 anni. Quest’anno i 9 miliardi in più delle entrate saranno totalmente assorbiti dalla correzione dei saldi prevista dal patto di Stabilità. Giorgetti ha intenzione di rendere strutturali le misure fondamentali della manovra – i 15 miliardi per la decontribuzione per i redditi fino a 35 mila euro e per confermare l’Irpef in tre aliquote – a cui si aggiungono gli stanziamenti per i rinnovi dei contratti pubblici e la sanità. Il tutto per una manovra da 25 miliardi. Ma stavolta l’Europa impone che le misure di riduzione della spesa e gli interventi sulle entrate debbano essere finanziate da coperture certe e durature. All’orizzonte, invece, non si profilano elementi di sostegno all'economia reale, nonostante la stagnazione del Paese e la frenata dell’industria. Se le aziende non offrono nuovo gettito all’Erario, si punta sulle tasche dei cittadini, come nel caso delle accise sul diesel e le mancate rivalutazioni delle pensioni.