Crisi
Il rallentamento dell'auto elettrica sta mettendo nei guai la Germania
Visita a Dresda in una delle aziende tedesche all’avanguardia nei microchip. Aprono nuovi stabilimenti ma il calo delle vetture a batteria penalizza tutta la filiera
«In Germania chi vuole lavorare nel settore bancario va a Francoforte, chi è interessato alla microelettronica viene a Dresda», racconta Andre Tauber nei corridoi di Infineon, la più grande azienda produttrice di chip in Germania, tra le prime cinque in Europa. Ma anche le imprese più forti risentono della frenata nel settore dell’auto elettrica, anche perché oltre il cinquanta per cento dei ricavi questa azienda nel 2023 lo ha fatturato nell’automotive. Tra i suoi clienti troviamo nomi come Bosch, Continental, Hyundai, e di recente è stato siglato un accordo quadro con Stellantis. Ma se rallenta la testa del treno anche i vagoni vanno più piano.
Torniamo sulle colline a Nord di Dresda, dove nei primi anni Duemila Infineon, nata da una costola di Siemens, stabilisce la produzione di semiconduttori sul terreno di un ex avamposto militare sovietico, da cui si gode una splendida vista sulle colline. Nel tempo i siti produttivi diventano due, con linee produttive separate. Ora è in costruzione un terzo modulo, grande quanto i primi due messi insieme. Lo scavo è monumentale: 450.000 metri cubi di terreno sono stati già portati via. Perché proprio qui? «Questa collina è di granito», spiega l’ingegnere che dirige i lavori, «quindi particolarmente stabile per il tipo di lavorazione che andrà a ospitare». La costruzione del nuovo impianto – che prevede un investimento da 5 miliardi – dovrebbe finire entro il 2025 per entrare in produzione dal 2026. L’aspirazione è contribuire a raggiungere gli obiettivi della legge europea sui semiconduttori del 2023, il Chips Act, che prevede di arrivare per il 2030 a una quota di produzione Eu del 20% del mercato mondiale. Per il momento la sola Infineon lo scorso anno aveva il 3,4% della quota di produzione globale.
Nella regione quello di Infineon non è un caso isolato, come testimonia la concorrente GlobalFoundries, e i motivi sono più d’uno. «Già negli anni Sessanta Dresda era leader nel settore dei semiconduttori», racconta Ludwig Dittmar, ingegnere logistico di 58 anni, una vita spesa tra i due lati della cortina di ferro. Dopo la riunificazione il governo ha deciso di investire in modo massiccio nell’innovazione. Oggi il capoluogo della Sassonia si presenta come la nuova San Francisco d’Europa, con un’associazione di categoria che si chiama – non a caso – Silicon Saxony e riunisce oltre 2.500 aziende del settore dell’It, spiega il manager Frank Bösenberg. Più di 70.000 persone lavorano in questo ambito nella regione – e negli anni Infineon è arrivata ad avere 58.600 addetti nel mondo, 3.500 solo a Dresda.
Stamattina Dittmar ci mostra dove si fanno i chip di Infineon. La parte più complessa non è vedere come si fanno ma prepararsi per la clean room, un ambiente sterile ad atmosfera controllata. Soltanto la preparazione costa mezz’ora. Prima è necessario togliersi orologi e catenine, poi sostituire i propri vestiti con una divisa. Solo a questo punto si accede allo spogliatoio dei dipendenti. E comincia una seconda vestizione: altri scarponcini, una tuta in materiale anti-elettrostatico che copre dalla testa ai piedi lasciando liberi gli occhi e guanti di materiale speciale. Dopo l’ultimo e severo controllo degli operatori, entriamo in una clean room gigantesca di 40.000 metri quadrati. Un chip nella tuta segnalerà i nostri spostamenti. Ma perché la clean room? «Pensate a una macchina fotografica. Se c’è una particella sull’obiettivo, la foto avrà una macchiolina. Se poi ingrandiamo la foto per centinaia di passaggi la macchia aumenterà compromettendo il risultato. La stessa cosa accade ai chip», spiega Dittmar. Per fare un chip su dischi in cristallo di silicio da 200 millimetri serve un procedimento ottico che prevede circa 500 passaggi. Per questo la minima impurità può portare a un chip difettoso. «Per concludere il processo servono tre mesi». Nel secondo modulo, che produce dischi di superficie di 300 mm, il procedimento «dura invece pochi giorni perché i passaggi sono ridotti a circa 70», spiega il nostro Virgilio. Qui si fanno chip per tutto: sensori per telefoni, computer, sicurezza, ma anche per il solare, il fotovoltaico, l’eolico oltre ai chip usati nelle auto. Colpisce in tutto questo la scarsità di personale. Ovunque solo robot. Nel primo modulo contiamo dieci persone. Nel secondo, automatizzato al 100%, la densità è ancora minore. Si vede camminare qualche tuta solitaria in corridoi sterminati, mentre un’altra è china su uno schermo. La “vita” scorre invece sopra le nostre teste, attraverso carrelli sopraelevati che trasportano unità di dischi ad alta velocità, come un intricato e ordinatissimo sistema stradale. La chiave dell’alta flessibilità di questa seconda fabbrica è qui: nel suo sistema di trasporto da 13 chilometri, dice Dittmar.
Conclusa la visita, usciamo dall’edificio in contemporanea ai giornalisti che hanno assistito alla pubblicazione degli ultimi dati trimestrali. Fatturato e ricavi sono andati peggio delle attese e le previsioni per i primi sei mesi del nuovo anno «non prevedono una ripresa sensibile della domanda», ha commentato l’Ad Jochen Hanefeld. Pesa la contrazione della domanda di auto elettriche in Germania dopo il boom degli anni scorsi. Le immatricolazioni in gennaio sono calate del 10,5%, anche perché il governo di Berlino ha tagliato gli incentivi, i costi dell’elettricità non sono rientrati e le colonnine di ricarica – 105.000 secondo l’Agenzia delle reti – sono molto meno del milione da raggiungere entro il 2030. A questo si aggiunge che i prezzi delle e-auto sono ancora troppo alti per un momento di crisi. Se il futuro è nei chip, anche i chip risentono della crisi delle tecnologie del futuro.