Intervista

«Oggi servono i filosofi a capo delle aziende, non gli economisti»

di Sabina Minardi   27 marzo 2024

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«Bisogna ripensare i perché, non il come; domandarsi il cosa, non il come». E poi: cura delle persone, sguardo rivolto all’intenzione di un’azienda. In un saggio di Giuseppe Morici la ricetta per crescere

Ikujiro Nonaka ne ha fatto il contrafforte di quel knowledge management essenziale a ogni impresa che persegua saggezza e conoscenza: chiedersi il perché. E, aggiunge lo studioso giapponese, più nelle aziende gli interrogativi sono scoraggiati, più sono da coltivare: perché quell’impresa esiste? Perché agisce in un determinato modo?

Ikujiro Nonaka ne ha fatto il contrafforte di quel knowledge management essenziale a ogni impresa che persegua saggezza e conoscenza: chiedersi il perché. E, aggiunge lo studioso giapponese, più nelle aziende gli interrogativi sono scoraggiati, più sono da coltivare: perché quell’impresa esiste? Perché agisce in un determinato modo?

 

Giuseppe Morici, manager, saggista e attuale vicepresidente del Gruppo Feltrinelli, sembra fargli eco: «In un momento in cui il modello capitalistico industriale va rivisto, servono i filosofi a capo delle aziende, non gli economisti: perché bisogna ripensare i perché, non il come; domandarsi il cosa, non il come», dice a L’Espresso, nel corso di una conversazione che attraversa i più cruciali, contemporanei cambiamenti nel mondo del lavoro. Dal fenomeno delle grandi dimissioni, che ha richiamato l’attenzione su bisogni e priorità nuovi a un’idea di leadership da riaggiornare; dalla richiesta di competenze manageriali trasversali fino agli scenari fragili che i cambi generazionali stanno tratteggiando nel panorama industriale italiano, c’è una cultura d’impresa da riscrivere. A partire dall’attenzione allo scopo da raggiungere. “Perché le intenzioni di un’azienda contano più delle sue dimensioni”, scandisce il sottotitolo dell’ultimo libro di Morici, appena pubblicato da Feltrinelli, “Crescere è una cosa da grandi”.

 

«Per anni ho lavorato in aziende di grandi dimensioni. Grande per me era quasi una scelta politica, strettamente correlata al civismo: ritenevo che vi lavorassero persone più consapevoli del diritto, delle regole, capaci di dare un contributo significativo alla società. Nelle aziende piccole, pensavo, si è a disposizione delle idee, delle scelte di un singolo padrone. Ho frequentato in questi anni aziende piccole, ho conosciuto i limiti di molte aziende grandi, e sono giunto a un’altra riflessione: che è la velocità intellettuale, la “dinamica della conversazione”, quella che io chiamo l’intenzione a contare veramente. Esistono aziende piccole che si pongono domande grandi e aziende grandi che si pongono domande piccole. Esistono aziende grandi che sono state pensate in grande sin da quando erano piccole, e altre che lo sono diventate loro malgrado. E poi ci sono aziende piccole dove si respira l’aria fresca di montagna e altre dove non si respira affatto: perché senza finestre».

 

Le dimensioni, cioè, e i fatturati non raccontano tutto: ciò che fa la differenza è l’essere in movimento. Possedere quella “mentalità di crescita”, alla quale esperti di psicologia applicata all’industria - una fra tutti Carol Dweck - hanno dedicato corposi studi. «Crescere per un’azienda non è una questione puramente economica, ma di postura, di sguardo rivolto al mondo», ribadisce Morici, alludendo a una mentalità aperta, a una cultura vasta, alla capacità di gestire la comunicazione tra le persone, alla fluidità che attraversa anche l’organizzazione del lavoro: «Cosa fa grande un’azienda? Innanzi tutto, la creazione di un significato condiviso: io non la creo per un personale beneficio economico, ma progetto un’architettura sociale della quale sono uno dei beneficiari. Il secondo punto è la creazione di un benessere condiviso. Devo domandarmi come stanno le persone dentro l'azienda: ci sono aziende grandi dove le persone stanno malissimo e piccole che puntano invece alla realizzazione delle persone». E, così facendo, trattengono i dipendenti: tema centrale in questi tempi nei quali il lavoro non definisce più la nostra identità. «Siamo stati per 30-40 anni dentro una retorica monodimensionale, non di matrice italiana, che schiacciava la complessità aziendale su una dimensione solo economica. Non è più accettabile: le aziende sono luoghi di lavoro, fatte di relazioni sociali, dove tutto deve stare in equilibrio». Un lascito del trauma pandemico, che ha rimescolato valori e condizioni irrinunciabili? «Bilanciare identità e crescita, aziendale e personale, in realtà era una richiesta che si sarebbe imposta in ogni caso. Per motivi generazionali, legati all’ingresso nel lavoro di ragazzi non più disposti ad accettare un certo tipo di leadership; ma anche per una crisi sociale e ambientale del modello aziendale: una crisi di senso».

 

 

E così i perché si fanno largo in una generazione nuova di imprenditori, oltre l’inamovibilità di un’oligarchia di anziani al comando: «Siamo stati di fronte a forme di egotismo, di governo aziendale centrato sul sé, sul proprio orizzonte. Io credo invece che il mestiere di un leader sia quello di occuparsi del futuro, di ciò che non c’è ancora. Le leadership personali per sfide complesse come quelle che abbiamo di fronte non bastano più». Distingue chiaramente, Morici, nel suo saggio, la figura del leader dalla funzione di leadership: «Confonderle è un errore frequente», spiega: «La leadership non è una dote, è un processo, è una serie di accadimenti, innescati da una particolare energia, che coinvolgono più soggetti di una stessa organizzazione. In questo movimento d’aria si genera un processo che guarda al futuro». Senza questo scambio crescere può far dimenticare il perché originale, lo scopo. E, a guardare gli sconfortanti dati sulla mortalità delle aziende familiari, è nel ricambio generazionale che «l’insurrezione iniziale» si perde. «Molti dei problemi dell’imprenditoria italiana stanno nei passaggi generazionali», interviene Morici: «Fa una gran rabbia: il rito in cui la generazione che precede non prepara quella che segue, si ripete sempre. E se si è proprietari di grandi aziende è un crimine».

 

Vince l’inerzia. E l’azienda soccombe: «La parola inerzia è come un morbo silente di qualunque organizzazione. Mi riferisco all’inerzia culturale, ma anche all’inerzia strategica. L’inerzia culturale è quella che ti fa dire: facciamo così perché si è sempre fatto così, qui funziona in questo modo, i valori sono questi. Ancora più frequente è l’inerzia strategica: vuol dire continuare a fare gli stessi prodotti con gli stessi clienti, con lo stesso modello di creazione del valore, le stesse relazioni. Anche in questo caso, il germe iniziale dell’impresa, quello sul quale dovresti sempre interrogarti per capire non cosa faceva l’imprenditore originario ma cosa farebbe oggi, è perduto. Insieme col futuro». Parola-ossessione, per Morici, sinonimo di intenzione: «Il futuro va posto in agenda. Bisogna decidere in quale contesto di futuro si vuole credere, su quale scenario di mercato, di settore, di clienti, di concorrenti puntare. E per fare in modo che quel progetto, che collega passato e presente, sia condiviso servono strategia e un’organizzazione lungo quelle direttrici: avendo cura che le persone siano nelle condizioni di raggiungere i nuovi obiettivi». Sapendo che «per passare da un modello estrattivo a uno circolare, per ripensare il significato di crescita servono manager che non si nutrano solo di manuali di management, ma di vita e di tutto ciò che contiene: la poesia e la musica, il cinema e la letteratura».