Sostenibilità
L'Europa vuole dire mettere un freno al greenwashing
Una nuova direttiva detta regole di trasparenza per l’etichettatura dei prodotti e vieta slogan ambientali fuorvianti. Mentre tra consumatori e aziende cresce la cultura antispreco
Da qualche tempo si usa chiamarlo greenwashing ovvero «ambientalismo di facciata». Ma quella che ormai è una pratica sdoganata nei contesti più disparati, e spesso è utilizzata per fini di puro marketing, potrebbe subire un ridimensionamento. Il merito è di una recente direttiva del Parlamento europeo, approvata con 593 voti favorevoli, che migliorerà l’etichettatura dei prodotti e vieterà l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. La disposizione dovrà comunque ricevere l’approvazione del Consiglio e gli Stati membri avranno 24 mesi di tempo per recepirla nel diritto nazionale. La norma tocca due punti cruciali: limitare le pratiche di commercializzazione ingannevoli, attraverso etichette più chiare e affidabili, e fare sì che produttori e consumatori siano più attenti alla durata dei prodotti.
«Si tratta di un grande passo avanti, ma non è sufficiente», sostiene Annarita Pilotti, presidente di Confindustria Moda, federazione che riunisce le imprese del settore tessile e dell’accessorio italiane. «La normativa non richiede che le dichiarazioni vengano effettivamente verificate. Per questo, è in fase di approvazione la direttiva “Green Claims” che stabilisce l’impegno a garantire che gli acquirenti ricevano indicazioni affidabili, comparabili e verificabili».
Se la pubblicità dovrà quindi essere più chiara e attendibile, indicazioni ambientali generiche come «rispettoso dell’ambiente», «rispettoso degli animali», «verde», «naturale», «biodegradabile», «a impatto climatico zero» o «eco» – se non supportate da prove – non avranno lunga vita. Su questo aspetto si batte da anni Iris Skrami, cofondatrice di Renoon, startup innovativa per lo shopping online circolare fondata nel 2020. La realtà opera grazie a una tecnologia proprietaria capace di aggregare, in un’unica piattaforma, centinaia di migliaia di prodotti sostenibili, da fasce di prezzo accessibili fino alla categoria del lusso. «Oggi è possibile scannerizzare un capo o vederlo online per comprenderne i processi di produzione e l’impatto ambientale lungo l’intera catena di approvvigionamento», spiega Skrami. Non a caso, la direttiva vieta le indicazioni infondate sulla durata di un prodotto, gli inviti a sostituire i beni di consumo prima del necessario e le false dichiarazioni sulla riparabilità di un oggetto.
Ma, allora, come si fa a capire quando un capo è davvero green, se si è un consumatore inesperto? «Innanzitutto, occorre controllare le etichette e cercare un Qr code o la menzione di certificazioni riconosciute che attestino le caratteristiche del prodotto», prosegue Skrami, «poi si deve valutare il materiale utilizzato e la durabilità del capo: su questo punto, la nuova regolamentazione del passaporto digitale (strumento proposto dalla Commissione europea nel 2022 che richiederà ai marchi di raccogliere e condividere i dati dell’intero ciclo di vita di un prodotto, ndr) fornirà un’indicazione precisa». Infine, bisogna fare attenzione al prezzo: spesso, i capi che possiedono attributi di sostenibilità hanno un costo leggermente più elevato, ma investire in prodotti di qualità può essere vantaggioso a lungo termine. I lati positivi per le aziende che avranno un approccio più trasparente sono molti: «Tracciabilità e trasparenza sono elementi di competitività per il made in Italy a livello internazionale», riprende Pilotto. E avverte: «Ma se non si interviene anche su altre variabili, da sola la tracciabilità non basta a rendere più competitive le aziende italiane».
La centralità di strategie di marketing più trasparenti è alla base anche della filosofia di Matteo Ward, amministratore delegato e cofondatore dello studio di consulenza e agenzia creativa WRÅD, che lo scorso anno ha firmato una docu-serie Sky-Will Media, intitolata “Junk: Armadi pieni”, sull’impatto della fast fashion. «Quando si entra in un negozio, ci sono dei campanelli d’allarme che possono guidare nella scelta di acquisto. Se un prodotto usa slogan pubblicitari vaghi, quello è marketing. Se figurano espressioni generiche come “fatto in Europa”, allora dobbiamo iniziare a porci delle domande».
Ward ha iniziato a parlare di sostenibilità nel 2015, quando ancora il tema non era all’ordine del giorno, e le aziende gli chiudevano la porta in faccia. Dopo un’esperienza da Abercrombie & Fitch si è licenziato ed è partito per l’Europa. «Volevo sapere di più sul reale costo della moda», racconta. Nel 2021 ha lanciato P.e.a.s., il primo sistema intelligente che integra tracciabilità sociale e ambientale con la gamification (utilizzo di meccanismi tipici del gioco). «L’obiettivo è riconnettere il capo di abbigliamento con il cuore e con la mente di chi lo indossa. Spesso acquistiamo con un approccio utilitaristico, in questo modo, invece, la tecnologia permette di connettersi con i vestiti e conoscerne l’impatto ambientale attraverso le informazioni inviate allo smartphone».
Nella bolla dell’asimmetria informativa, poi, ci mette lo zampino anche il vintage, segmento che, specialmente online, sta spopolando da tempo e che ha generato un valore di 25 miliardi di euro in Italia solo nel 2022. «Il rischio di acquisti incontrollati è dietro l’angolo», sottolinea Ward. Nonostante i tentativi di regolamentazione (si pensi nel 2022 alla “Eu Strategy for Sustainable and Circular Textiles” lanciata dalla Commissione europea), rimane il fatto che, almeno in Italia, le aziende sono ancora lente nel dettare politiche sostenibili nella loro governance. Laddove, invece, allontanarci dalla cultura dello scarto è l’unica via per nuocere di meno al pianeta, se pensiamo che ogni anno, solo nell’Ue, vengono scartate circa 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili.