L'ex giocatore e oggi allenatore dell'Udinese ripristina l’ex campo di allenamento del Napoli. “Per farne un vivaio di nuovi talenti e un centro di aggregazione. alternativo alla cattiva strada”

Tra le decine di scritte che colorano l’esterno dell’impianto, alcune antiche come “Ma.Gi.Ca” (acronimo di MaradonaGiordano Careca), altre nuove, “Uomini forti per destini forti”, citazione da Luciano Spalletti, e altre ancora che puntano all’eternità, “Santo Diego”, colpisce una fuori tema: “Lasciate libero il passaggio. Lavori in corso”. Si trova proprio sul cancello del centro sportivo “Paradiso”, il vecchio terreno di allenamento del Napoli, lo stesso dove Maradona incantava migliaia di tifosi. Da quando è stato chiuso, i sostenitori azzurri lo hanno trasformato in un santuario – assolutamente non laico – in onore del D10S. Mentre molti hanno chiesto di intitolarlo al calciatore, dopo la scomparsa, qualcuno ha deciso di riportarlo alla sua funzione originaria: Fabio Cannavaro, campione del mondo con la nazionale italiana, Pallone d’oro 2006, attuale allenatore dell’Udinese.

 

«Sono nato a un chilometro dal campo Paradiso», racconta. «E calcisticamente sono cresciuto là, mi allenavo con la Primavera del Napoli. Ho avuto l’onore di marcare Diego, spesso in modo rude». Il campo chiuse con il fallimento della società, a inizio anni Duemila: da quel momento il terreno in cui il campione creava magie è preda di piante infestanti e detriti, il resto lo ha fatto la piccola delinquenza: «Si sono portati via tutto, negli anni. Vederlo così era davvero triste: ho deciso di rilevarlo e creare una struttura in cui possano fiorire i talenti», dice Cannavaro. Vuole costruire «un centro che possa autosostenersi: un campo di calcio, due di calcetto, una palestra, un centro per la fisioterapia, una piccola foresteria». Una fucina di futuri campioni e insieme un luogo in cui creare socialità sana: «Il calcio è ancora un’alternativa alla strada, ma nel senso di quella cattiva, perché oggi mancano proprio i ragazzi che, per strada, ci giocano». Un problema in tutta Italia, quello della diminuzione di giocatori in erba, che al Sud si somma all’assenza di strutture: «Nel Mezzogiorno c’è sempre una buona richiesta ma mancano società che puntino davvero sui ragazzi». E anche quando i talenti ci sono, spiega, «sono purtroppo spesso soffocati da allenatori che invece di aiutarli a raffinare la tecnica li asfissiano con la tattica». Tutto ciò è aggravato da un dato generazionale: «I giovani hanno troppe distrazioni e poca fame». Sarà un caso che, con gli Europei alle porte, il ct Spalletti fatichi a trovare calciatori nei vari ruoli? «Per i club di serie A investire sui vivai italiani dovrebbe essere obbligatorio», conclude.

 

 

Per alcuni interventi di ristrutturazione Cannavaro si è rivolto al Credito sportivo, una banca pubblica controllata dal Mef. L’istituto si occupa di agevolare finanziamenti rivolti alla riqualificazione delle palestre, all’abbattimento delle barriere architettoniche, all’efficientamento energetico tramite mutui “light” che è possibile rimborsare anche in 7 anni. E addirittura a tasso zero se il credito avviene tramite enti locali: «La maggior parte delle strutture sportive è di proprietà dei Comuni», spiega Debora Miccio, direttrice commerciale della banca. «Un ente si rivolge al Credito per ricevere il finanziamento e lo affida all’associazione che gestisce un bene. Così si trova la sua struttura valorizzata e nel frattempo il sodalizio non ha oneri ulteriori».

 

Ogni anno circa 700 associazioni bussano alla porta del Credito sportivo; in maggioranza sono del Centro-Nord – 70/30 la proporzione in confronto al Centro-Sud – ma negli ultimi tempi le richieste da parte di realtà del Mezzogiorno sono in aumento. Recentemente la banca ha attivato la piattaforma “Delta” che analizza i benefici sociali di un investimento in infrastrutture sportive: «Il risultato medio è che per ogni euro investito ne tornano 3 in Sroi (social return on investment)».

 

Nell’epoca dei rapporti a distanza e “hikikomori” sport e calcio sono vettori di salute, aggregazione, benessere sociale: l’indice Sroi si trova anche nella prima pagina del report annuale della Federazione Italiana Giuoco Calcio, i cui settori giovanile e dilettantistico formano il più grande movimento sportivo italiano, con oltre un milione e centomila iscritti. A sovrintenderlo ci sono due rami della Figc, la prima a dotarsi in Europa di un settore giovanile, subito dopo la guerra, nel 1947. Lo guida da 10 anni Vito Tisci che, in riferimento alla popolazione under 16, dice: «Le iscrizioni stanno tornando ai livelli di prima del Covid, ma in generale la denatalità porta, col tempo, i numeri ad abbassarsi».

 

L’interno del Paradiso, ex campo di allenamento del Napoli.

 

La sezione si impegna per aumentare i suoi tesserati con un lavoro che parte dai territori e si traduce in progetti modello come “Ragazze in gioco”, premiato dalla Uefa, che incentiva la diffusione del calcio tra le donne. «Sono le ragazze a offrire le migliori performance di crescita tra gli iscritti», spiega Vito Di Gioia, segretario federale del settore. «Ma esiste una vera e propria questione meridionale del calcio giovanile», spiega. Poche le società professionistiche a fare da traino e pochi impianti alla base del gap. «Eppure le piccole società sportive sono dei presidi di legalità e di welfare in luoghi in cui mancano le attività produttive», riprende Tisci. Con un paradosso: «Il Sud è la zona d’Italia che dà più giovani al calcio professionistico, con la Campania in testa. Ma i ragazzi vanno verso le società del Nord proprio perché nei loro bacini mancano le possibilità, realizzando una “fuga di gambe” che acuisce il circuito vizioso». E non è addebitabile, dicono entrambi, a una presunta crisi dei settori giovanili l’assenza di campioni in nazionale nell’ultimo periodo: «Fino agli under 19 le nostre rappresentative riscuotono successi, classificandosi ai primi posti delle competizioni continentali». E allora che succede? «Sono le società, a parte eccezioni, a non valorizzare i talenti italiani».

 

Una catena che verso il vertice si spezza, in pratica. Con un anello debole per tutti: «La rivoluzione copernicana costituita dal decreto 36 del 2023», afferma Giancarlo Abete, attuale presidente del settore dilettantistico della Figc che guidò dal 2007 al 2014. «Il provvedimento ha determinato l’abolizione del vincolo e la nascita del contratto di lavoro sportivo. Prima esistevano accordi economici solo nelle categorie principali dei dilettanti, differenti dai contratti di lavoro autonomo nati dal decreto. Un principio condivisibile, certo, ma che di fatto indebolisce diverse realtà». Le piccole società, dice, non hanno più interesse nell’investire nei vivai «perché il riconoscimento economico che arrivava dall’aver valorizzato i giovani viene a mancare». Torna la catena malata: «Questo determina effetti non solo tra i dilettanti ma anche tra i professionisti:  i dilettanti davano i tesserati ai club maggiori e questi avevano la possibilità di vincolare i giocatori per un certo numero di anni; ora non più», aggiunge Abete. «Eppure il pallone è un fenomeno popolare di primissimo piano e la dimensione sociale, per quanto sia importante il contributo economico ed occupazionale che la filiera produce, deve rimanere centrale, nel calcio».