Economia
La grande illusione della Ia: danni per tutti e benefici solo per i super ricchi
Alcuni tra i più rinomati economisti considerano eccessive le previsioni di crescita generate dall'intelligenza artificiale. Mentre farà aumentare disuguaglianze e disoccupazione
La rivoluzione dell’intelligenza artificiale è appena cominciata, e già è scattata la restaurazione. All’improvviso, dopo che per un anno si erano levate solo le voci che sempre più eccitate celebravano «il più grande avanzamento tecnologico dopo la scoperta della ruota», come si legge senza ironia sull’account X “IA Enthusiast”, arriva la frenata. E non da qualche nichilista nostalgico, bensì da una nutrita schiera di economisti di primissima linea che sembrano essersi dati un appuntamento all’insegna del “ridimensionamento” nel mese di aprile, culminato con l’annuncio che papa Francesco andrà al G7 in Puglia a parlare proprio dell’Ia, e lo farà per mettere in guardia contro i possibili usi militari della tecnologia. Un sospetto plausibile: le reti neurali che “mimano” i legami neuroni-sinapsi del cervello e sono alla base dell’Ia, nacquero anni fa per identificare le navi da guerra nelle foto satellitari.
Le paure degli economisti superano i vantaggi dell’Ia e non sono meno accorate di quelle del Pontefice. «Mi sento come Don Chisciotte contro i mulini a vento», ha esordito Michael Spence, che da preside di Economia a Stanford vinse il premio Nobel 2001 ed è stato invitato pochi giorni fa da Anurag Behar, rettore della Azim Premji University di Bangalore, India, per una conferenza. Di fronte agli attoniti studenti ha precisato: «Ragazzi, sono abbastanza sicuro che alla fine troverete una soluzione. Ma c’è una lunga lista di pericoli insiti nell’Ia che bisogna affrontare con serietà». E ha citato per primo proprio il possibile utilizzo nell’ordine pubblico ma soprattutto nelle guerre: «È una tecnologia potente, e non manca molto perché un’arma possa decidere in autonomia contro chi sparare». L’unico rimedio è un trattato mondiale che vieti gli armamenti dotati di un tale livello di automazione, «come quelli nucleari, batteriologici e chimici. Ma oltre a questo c’è un’enorme serie di altri problemi da risolvere: privacy, sicurezza, responsabilità». In ogni caso, aveva anticipato lo stesso Spence in un’intervista, «la stima (della McKinsey, ndr) di un contributo al Pil mondiale di 4.000 miliardi l’anno che dovrebbe dare l’Ia è eccessiva almeno al momento».
Grossolanamente esagerato pare che sia anche un luogo comune: «Chi ci garantisce e quali prove ci danno per credere che tutti i milioni di posti di lavoro che saranno persi verranno rimpiazzati con nuovi lavori più divertenti, più creativi, meglio pagati?», si chiede Daron Acemoglu, punta di prestigio dell’Mit di Boston, che a questi temi ha dedicato il libro “Power and Progress”. Sul mitizzato contributo alla produttività, Acemoglu ha espresso algidamente la sua percentuale prevista: +0,1%. «Sia le aziende che sviluppano sia quelle che utilizzano l’Ia puntano sulla sostituzione dei lavoratori con le macchine, piuttosto che sul rendere le persone più produttive. Il rischio è l’eccesso di automazione».
Lo sviluppo dell’Ia «si svolge nel regno delle techno-utopie», attacca Eric Posner, professore della University of Chicago Law School. «La realtà – scrive su Project Syndicate – è che saranno messi ai margini tutti, dai più pagati medici e professionisti fino a camionisti e cassieri. L’Ia non solo sarà in grado di sostituire, mettiamo, i programmisti al computer, ma di funzionare meglio degli stessi programmisti anche quando avranno seguito corsi di aggiornamento». Un inseguimento mozzafiato: «Come risponderà psicologicamente e politicamente la gente vedendo che gli viene sottratta la possibilità di contribuire con le proprie competenze alla società?» La partecipazione alla forza lavoro, spiega Posner, è calante ormai da molti anni e il trend non si riesce a invertire: «È come se i lavoratori non avessero la capacità di modificare l’attività in sintonia con gli avanzamenti tecnologici: l’irrompere dell’Ia accelera questa tendenza colpendo i lavoratori ad ogni livello». Travolti e spiazzati: «I governi devono smetterla di sovvenzionare l’Ia e pensare a preservare e valorizzare i posti di lavoro». Le conseguenze le ricorda Angus Deaton, Nobel per l’Economia 2015, nel saggio “Death of despair”, morire di disperazione: «L’improvvisa disoccupazione di massa per l’irrompere della tecnologia porta ad alti livelli di alcolismo, overdose, suicidi».
Perplessa è anche Kristalina Georgieva, direttrice generale del Fondo monetario, sul blog dello stesso Fmi: «Nella maggior parte dei casi l’Ia peggiorerà le diseguaglianze, e di questo i politici di tutto il mondo devono tener conto varando misure proattive». Molto dipende, «dall’integrazione dell’Ia nei vari livelli: se riesce a utilizzarla al meglio chi ha un alto reddito, i guadagni aumentano in modo sproporzionato esasperando le differenze salariali. Inoltre, i miglioramenti in produttività alzano gli utili delle aziende e così i profitti di chi sta al top». Il tutto tenendo presente che «all’Ia sarà interessato il 40% della forza lavoro mondiale». Invece Stefano Scarpetta, direttore centrale dell’Ocse per il lavoro e gli affari sociali, riconosce che c’è un problema per «i lavoratori con più basse competenze che sono i più preoccupati di essere sostituiti dalle macchine», però sottolinea che «l’Ia può aumentare performance e qualità del lavoro a ogni livello prendendosi la parte più ripetitiva e rischiosa. E poi permette di elevare le capacità dei lavoratori con qualifiche intermedie». Il risultato netto potrebbe essere quello di una riduzione delle diseguaglianze. Peraltro, ricorda Scarpetta, «una nostra indagine su 2.000 aziende in sette Paesi dimostra che la maggior parte dei datori di lavoro non ha ridotto l’occupazione pur usando l’Ia».
Ma Nouriel Roubini, guru della New York University, riapre il cahier des inquiétudes inserendo l’Ia fra le “Megathreats”, le minacce globali cui dedica il suo ultimo libro. Il capitolo sull’Ia si chiama “Hope and Hype”, speranza e apparenza: è una corsa all’oro per le aziende che hanno scoperto questo filone, «ma emergono degenerazioni come le fake news e la disinformazione che influenza le campagne elettorali, per non parlare di sacche di disoccupazione che hanno l’aria di essere permanenti. Non si vede in nessun Paese una classe politica in grado di gestire una rivoluzione di questa portata». Sul lungo termine, «l’Ia ci potrebbe aiutare sul climate change o sull’esplorazione spaziale ma dobbiamo sperare che la stupidità, stavolta umana, ci permetta di arrivare fino al momento in cui la tecnologia sarà matura e utile».
Un altro settore in cui è fondamentale porre dei limiti è la giustizia. «È ad alto rischio la linea di confine fra l’utilizzo ai fini di documentazione e la tentazione anche involontaria di assegnare alla macchina decisioni discrezionali o addirittura predittive», spiega Giovanni Maria Flick, padre nobile dei costituzionalisti italiani, già presidente della Consulta e ministro della Giustizia. «Non sembri così scontato il principio, fondamentale dato che i giudici decidono del destino di una persona, che si deve fermare l’uso della macchina laddove debordi dalla “riserva di umanità”». Flick uscirà in autunno con un saggio sull’Ia, “Dalla sopravvivenza alla convivenza”, per le edizioni del Sole 24 Ore: «Nell’amministrazione della giustizia più che in qualunque altro settore va evitata l’attribuzione all’Ia del benché minimo potere di condizionare o sostituire le decisioni né tantomeno di predirle, e occorre la massima cautela nelle informazioni da dare in pasto alla macchina perché possono dare adito a equivoci o pregiudizi devastanti». L’«algocrazia», come la chiama Flick, la dittatura degli algoritmi, è dietro l’angolo e i padroni sono i grandi gruppi che gestiscono i Big Data: «Per alimentare le loro conoscenze i gruppi sono impegnati in una continua e pervasiva “pesca a strascico” presso ogni fonte possibile, dagli organi d’informazione a ciò che immettiamo noi stessi in Rete. La loro unica guida e preoccupazione è il profitto, qualsiasi siano i contenuti. È un vecchio problema che però con l’avvento dell’Ia assume tutta una nuova valenza e presenta risvolti inquietanti: bisogna serrare i controlli per evitare che da questo tritacarne esca un uso scorretto, indiscriminato e discriminatorio».
Gli stessi artefici dell’Ia sembrano percorsi da qualche inquietudine, almeno così lasciano a vedere. Prima c’è stata la pantomima dell’uscita da OpenAi (il laboratorio che ha partorito ChaptGpt e Gpt-4) del capofila Sam Altman, che ha accusato i soci di cercare solo profitti mentre lui aveva in mente una «non profit organization», salvo poi rientrare quattro giorni dopo con chissà quali accordi. Poi altri due pionieri come il controverso Elon Musk e il cofondatore di Apple Steve Wozniak hanno chiesto sei mesi di moratoria in attesa di vederci chiaro sui risvolti etici dell’Ia: ma i soldi in ballo sono così tanti che era solo un ballon d’essai subito rientrato. «Il modello non-profit non può reggere per gli investimenti che l’Ia richiede», taglia corto Evgeny Morozov, sociologo di Stanford di origini bielorusse. I protagonisti sono sempre quelli: Amazon, Facebook, Apple, Microsoft (che ha investito 10 miliardi nel 2023 in OpenAi permettendole il salto di qualità). Accusa Morozov: «È partita a razzo una macchina impazzita e dobbiamo metterle un guard-rail. E smettiamola di chiamarla intelligenza artificiale: di intelligente non ha nulla perché rimastica le informazioni che gli diamo noi procedendo su binari precostituiti unidimensionali, di artificiale ancora meno proprio perché i dati li forniscono uomini e donne in carne e ossa con le loro convinzioni, pregiudizi, convenienze. Il problema è che in Silicon Valley sono convinti di fare qualcosa di altamente cognitivo e lucidamente razionale. Peggio, si preparano a vivere in un mondo plasmato dall’Ia. È tempo di farli ragionare». Uno che ragiona c’è, si chiama Daniel Kayser, fa l’imprenditore dell’Ia per videogame e sgombra il campo dagli equivoci: «L’intelligenza artificiale non si fonderà mai con le scienze cognitive. E non c’è nessun contributo della logica».