I costi della transizione
«Non abbiamo alternative: per salvare il Pianeta dobbiamo raggiungere la neutralità climatica»
I costi della transizione
«Non abbiamo alternative: per salvare il Pianeta dobbiamo raggiungere la neutralità climatica»
Ai ritmi attuali gli impegni di riduzione delle emissioni non saranno raggiunti e i fondi stanziati non sono sufficienti. E resta molto da fare per riqualificare alcuni settori produttivi e per le compensazioni ai Paesi con le materie prime. Parla la vice segretario generale dell’Ocse Fabrizia Lapecorella
Alla vigilia dell’Olimpiadi, il 25 luglio scorso, gli attivisti ambientalisti di Last Generation hanno bloccato l’aeroporto di Francoforte creando enormi disagi al traffico aereo. Una strategia di protesta molto diversa da quella del movimento “Friday for Future” nato con Greta Thunberg, la ragazzina svedese dalle treccine bionde che ha portato pacificamente nelle piazze di mezzo mondo milioni e milioni di studenti per sferzare i governi, incitarli ad agire prima che il pianeta muoia soffocato dai gas serra. Ora però le azioni di Last Generation - dai monumenti imbrattati agli scali ferroviari e aeroportuali occupati - stanno provocando in parte dell’opinione pubblica fastidio e irritazione. Le polemiche hanno coinvolto anche direttamente i due movimenti con Luisa Neubauer, la rappresentante di “Friday for Future” più nota insieme alla Thunberg , che ha ammonito: «Certe azioni possono anche spaventare le persone e i decisori politici».
Al di là delle strategie di protesta, negli ultimi tempi sta montando soprattutto in Europa una certa diffidenza verso le politiche dirette alla transizione verde. Green non è più sinonimo di bello e giusto. Quanto ci costerà adeguarci alle case green? Come faremo a comprare l’auto elettrica con i suoi prezzi ancora proibitivi per i più? Quanti posti di lavoro andranno in fumo con la decarbonizzazione? Che senso ha ridurre le emissioni inquinanti da questa parte del pianeta, se poi dall’altra continuano a produrre con i vecchi metodi per mantenere bassi i costi? Non sarebbe meglio arrivare ai target in modo più graduale?
Abbiamo girato queste domande a Fabrizia Lapecorella, vice segretario generale dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico con sede a Parigi, che ha la missione di promuovere a livello globale politiche economiche finalizzate al miglioramento del benessere economico, sociale e sostenibile dei cittadini.
Gli effetti deI cambiamento climatico sono sotto gli occhi di tutti. Eppure le polemiche non mancano: da una parte c’è chi vorrebbe accelerare gli interventi, dall’altra chi chiede maggiore gradualità per evitare impatti negativi sulle produzioni, sulla competitività, sul mercato del lavoro. Lei, all’interno dell’Ocse, ha la delega proprio su questi aspetti. Quale è la posizione dell’Organizzazione?
«L’Ocse già da alcuni anni ha messo al centro del suo programma di lavoro l’analisi delle politiche per il contrasto ai cambiamenti climatici con un approccio multidisciplinare che evidenzia la necessità e l’urgenza di trasformazioni sistemiche, come per esempio la decarbonizzazione industriale, e fa emergere con chiarezza la complessità di gestire gli impatti economici e sociali di queste trasformazioni in modo da assicurare che la transizione verde sia giusta ed equa».
In base alle stime degli scienziati del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), per raggiungere il target di emissioni nette zero del 2050, dovremmo centrare due tappe intermedie con riferimento ai livelli del 2019: -43% di emissioni nel 2030 e -60% nel 2035. In questo contesto il Green Deal europeo si è dato l’obiettivo di diventare il primo continente a impatto climatico zero emissioni. Ce la faremo?
«Dobbiamo farcela necessariamente, per evitare la fine del pianeta. Non è per niente facile, ma non ci sono alternative. I dati Ocse indicano che gli attuali impegni di riduzione delle emissioni dovrebbero aumentare di circa il 30% in aggregato per raggiungere i target di riduzione al 2030 e al 2035 compatibili con l’Accordo di Parigi. È bene comunque sottolineare che l’obiettivo a metà del secolo non è quello delle emissioni zero, come comunemente si dice, ma quello della neutralità climatica».
Qual è la differenza?
«Il nostro pianeta è in grado di assorbire una parte delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo. La neutralità si ha quando si raggiunge l’equilibrio. Lo sviluppo di tecnologie innovative che consentono la cattura e lo stoccaggio di carbonio, può far alzare l’asticella dell’equilibrio».
Non crede che aumentare gli impegni di riduzione delle emissioni del 30% nell’arco dei prossimi 10 anni sia una sfida titanica?
«La sfida è enorme, ma ripeto non abbiamo alternative. Per vincerla dobbiamo affrontare due problemi collegati tra di loro ma che richiedono azioni differenti: per evitare i disastri provocati dal cambiamento climatico servono interventi di prevenzione anche infrastrutturale, pensiamo ad esempio al dissesto idrogeologico che coinvolge gran parte del territorio italiano. Negli ultimi 20 anni tutti i paesi Ocse hanno adottato un piano di adattamento ai cambiamenti climatici, in base alle loro specifiche caratteristiche. Ma soltanto il 60% lo ha aggiornato. L’Italia, con il piano varato a dicembre scorso, è tra questi. Bisognerà capire se le risorse sono sufficienti».
Il Pnrr mette a disposizione risorse importanti per la transizione energetica.
«La transizione è l’altro aspetto del problema che richiede le cosiddette politiche di mitigazione delle emissioni, che in sostanza si concretizzano da una parte negli incentivi agli investimenti necessari per il raggiungimento degli obiettivi climatici - pensiamo alle nuove reti di distribuzione dell’energia pulita, gli impianti di stoccaggio, la trasformazione dei processi produttivi che generano emissioni “hard to abate”, ecc. - dall’altra e in modo contestuale nelle compensazioni e nei sostegni al reddito o all’occupazione per le famiglie, i lavoratori e le imprese più vulnerabili che subiranno un inevitabile impatto negativo da queste trasformazioni. A livello globale le stime quantificano lo sforzo finanziario nell’ordine di trilioni di dollari su base annua. È evidente che i finanziamenti pubblici da soli non sono sufficienti. E infatti adesso il dibattito si sta spostando su come mobilitare le risorse private su questi progetti e innescare processi virtuosi: sarà il tema centrale della Cop29 che si terrà a Baku, in Azerbaijan, il prossimo novembre. C’è inoltre un altro importante problema da risolvere».
Quale?
«Riguarda le compensazioni da dare ai Paesi che detengono le cosiddette materie prime critiche, indispensabili per la transizione energetica. Sono concentrate in Cina e in alcuni Paesi africani. Ma se la Cina ha anche le tecnologie adatte per sfruttarle e utilizzarle, gli altri no e occorre convincerli che non saranno solo depredati delle loro risorse, ma anche aiutati a svilupparsi in modo sostenibile. Sono questioni molto delicate di geopolitica che richiedono interventi coordinati tra Paesi. L’Ocse si sta misurando con questa sfida attraverso l’Ifcma, Inclusive Forum on Carbon Mitigation Approaches, istituito nel 2022 proprio con l’obiettivo di promuovere il coordinamento internazionale delle strategie di mitigazione delle emissioni. Oggi l’Ifcma conta 59 membri: 38 paesi Ocse, l’Unione Europea e 20 Paesi non-Ocse».
In Italia, in base all’ultimo rapporto Ocse sul mercato del lavoro, ben il 5,1% dei lavoratori è attualmente occupato in produzioni ad alta intensità di emissioni. Come fare per non lasciare nessuno indietro?
«La riqualificazione è un passaggio obbligato. In questo contesto, il nuovo strumento di “Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl)” può avere una funzione importante se meglio mirato a rispondere alle carenze di manodopera nei settori chiave per la transizione verde. C’è anche un tema importante che riguarda le retribuzioni medie che, per la manodopera meno qualificata impiegata nei settori “verdi” tendono ad essere significativamente più basse di quelle che sarebbero percepite dagli stessi lavoratori in altri settori dell’economia. Dunque per l’Italia vale una delle raccomandazioni più importanti del nostro ultimo Employment Outlook: l’accettabilità sociale della transizione verde richiede che la stessa sia accompagnata da politiche di sostegno al reddito dei lavoratori che si dovranno spostare nei settori “verdi’’».
Personalmente cosa pensa delle proteste di Last Generation?
«La preoccupazione dei giovani che protestano è legittima: il riscaldamento globale è una minaccia esistenziale per le generazioni future. Mi piacerebbe però vedere l’energia spesa per le proteste canalizzata, almeno in parte, verso le possibili soluzioni e quindi verso la ricerca di un dialogo con le istituzioni. Su questo fronte mi sembra ci sia un enorme difetto di comunicazione: bisognerebbe lavorare di più per migliorare la consapevolezza sulla complessità e i costi del percorso verso la sostenibilità».