Economia
10 settembre, 2025Concentrata per decenni sul contenimento del debito, l’Unione ora deve puntare allo sviluppo. Affiancando un “Growth compact” al più noto “Fiscal compact”
Per capire quello che succederà domani – un nuovo grande patto europeo per spingere una crescita che è stagnante da vent’anni – è necessario riguardare il passato. Nel 2012 l’euro sembrava sul punto di implodere. Il sogno della moneta unica, imbracciato alla fine del XX secolo da leader della portata di Helmut Kohl e François Mitterrand e condotto in porto da supertecnici quali Tommaso Padoa-Schioppa e Alexandre Lamfalussy, stava per infrangersi sugli scogli dei troppi debiti degli Stati membri a partire dall’Italia, dei trucchi contabili architettati dalla Grecia pur di entrare nella moneta unica, delle tensioni e della totale mancanza di fiducia fra un Paese e l’altro. La moneta comune aveva appena compiuto dieci anni (è nelle nostre tasche dal gennaio 2002) e l’impasse sembrava insanabile. La crisi si allargò dalla moneta (che allora era adottata da 15 Paesi contro i 20 attuali) all’Unione europea come istituzione. Finché, il miracolo: dopo mesi di aspre discussioni, il 2 marzo 2012 – su spinta di Angela Merkel contro il parere del suo ministro delle Finanze Wolfgang Scheauble che invece voleva smantellare tutto – fu approvato dall’Ue con i soli voti contrari della Gran Bretagna e della Repubblica Ceca, il Fiscal compact, il “patto di bilancio” in italiano. Era il trattato che fissava nuove, più rigide e stavolta davvero cogenti regole per vincolare tutti a precise norme contabili, con l’obiettivo di ridurre i disavanzi e ricondurre su binari di governabilità la disciplina contabile. Fu uno dei due tasselli risolutivi della crisi: il secondo lo mise a segno Mario Draghi, allora presidente della Bce, con il celeberrimo «Whatever it takes» con cui concludeva il suo intervento alla Global Investment Conference di Londra, un forum di investitori e dirigenti d’azienda. Anche Francoforte assicurava il suo impegno per salvare l’euro: «E vedrete che sarà abbastanza», aggiunse Draghi. Aveva ragione.
Fast-forward a oggi. L’Europa, anzi il mondo, è cambiato. Ci sono stati il Covid, l’impennata di inflazione da energia, la guerra in Ucraina, il ciclone Donald Trump che ha sconvolto gli assetti geopolitici sostituendo alla cooperazione internazionale la legge del più forte. Dimenticata la disciplina di bilancio, la priorità è un’altra: è la crescita, unica via per migliorare le condizioni di vita e lavoro dei 450 milioni di cittadini dell’Unione, consolidare il welfare state dagli asili nido all’edilizia popolare, potenziare istruzione e sanità pubblica. È ora di aggiungere al vecchio Fiscal compact, le cui lezioni sono state ormai acquisite anche dai Paesi più riottosi come Italia e Grecia, un nuovo “Growth compact”, il trattato per la crescita. «Intendiamoci, le regole per la stabilità di bilancio non vanno considerate superate, tutt’altro – puntualizza Marco Magnani, economista della Luiss e della Cattolica – solo che a esse vanno affiancate ulteriori norme pensate espressamente in un’ottica di crescita». Insomma, lasciarsi alle spalle l’austerity e concentrarsi sullo sviluppo, a costo di affrontare qualche rischio in più come finanziare una startup dall’incerto futuro o investire in Borsa perfino soldi pubblici dov’è possibile (ma non garantito) un futuro guadagno. Spiega Brunello Rosa, docente di macroeconomia alla London School of Economics: «Facciamo un esempio. Bisogna agevolare anziché ostacolare le grandi fusioni fra aziende, con l’obiettivo di permettere di raggiungere la massa critica necessaria per competere con i colossi americani e cinesi, di fronte ai quali il divario di produttività e competitività cresce e sottrae quote di mercato alle imprese europee, condannate al “nanismo” su scala globale». Determinanti nel frenare lo sviluppo, oltre agli egoismi nazionali, sono le norme auto-imposte dalla Ue negli anni del Fiscal compact. «Inizialmente erano regole fondamentali che volevano fermare gli abusi di posizione dominante, gli eccessi di indebitamento o le prevaricazioni di ogni natura, poi però un’applicazione troppo rigorosa – spiega Rosa – ha finito con il penalizzare il sistema Europa. Di fatto, al gap dimensionale si è aggiunto quello concorrenziale».
Un aspetto, quello del debito (lo “schulden” detto in tedesco che vuol dire anche colpa o peccato), è la “lettera scarlatta” che ha bloccato lo sviluppo. Se ne è accorto persino Draghi, il più rigorista dei rigoristi, che ha introdotto nel suo “Rapporto sulla competitività” dell’anno scorso (che Ursula von der Leyen ha posto come base programmatica per il suo secondo mandato iniziato nella primavera 2025) la distinzione fra “debito buono” e “debito cattivo”. Da allora non perde occasione per tornarci sopra e illustrarla con sempre maggiori dettagli in ogni intervento pubblico. L’ultimo è stato a Rimini, al Meeting di Cl il 22 agosto: «Il debito cattivo finanzia il consumo corrente lasciandone il peso alle future generazioni – ha detto Draghi – mentre il debito buono serve a finanziare gli investimenti nel quadro delle priorità strategiche e dell’aumento della produttività. Esso genera la crescita che servirà a ripagarlo». Draghi non ha perso l’occasione per rinnovare l’esortazione a emettere nuovi eurobond sul modello di quanto fatto per il Next Gen Eu (e quindi per i Pnrr nazionali): «Soltanto forme di debito comune possono sostenere progetti europei di grande ampiezza che sforzi nazionali frammentati e insufficienti non riuscirebbero mai ad attuare». Vale per «la difesa, l’energia e le tecnologie dirompenti in cui i rischi sono molto alti ma i potenziali successi sono fondamentali per trasformare le nostre economie».
Solo pochi giorni prima, nel cuore dell’estate, a spezzare una lancia a favore del Growth compact era stata la più imprevedibile delle fonti: Pierre-Olivier Gourinchas, capo del dipartimento ricerca del Fondo Monetario Internazionale. Ai tempi della Troika, che vigilava sui debiti dei Paesi a favore dei quali erano attivi finanziamenti d’emergenza (Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro, Slovenia e Grecia, elenco da cui per il rotto della cuffia fu risparmiata l’Italia), il Fmi era il più spietato dei tre organismi (gli altri due erano la Bce e la Commissione) nel controllare che fossero rispettati i patti e quindi ridotti debiti e rischi. Un’altra epoca. Così come è emersa la consapevolezza dei limiti delle attuali procedure. «Un Patto per la crescita – scrive Gourinchas sul blog dell’Fmi – dovrebbe prevedere la rimozione delle barriere regolatorie interne che riducono la flessibilità, frenano lo sviluppo e non permettono la creazione di un mercato dei capitali solido e coeso».
L’esempio del nuovo spirito viene paradossalmente proprio dalla Germania, che ha cambiato la Costituzione pur di finanziare a debito ingenti piani di investimento, dalla difesa alle infrastrutture, oltre 500 miliardi da qui a fine decennio. E se lo fa la Germania, difficile dire che il modello non possa essere trasferito a modello europeo.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Nuovo ordine - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 12 settembre, è disponibile in edicola e in app