Economia
29 ottobre, 2025Non solo dazi, la perdita di valore della divisa Usa sull’euro provoca un crollo per le imprese italiane di oltre il 21 per cento. Secondo Confindustria nel 2025 si bruceranno così 23 miliardi
Non bastavano i dazi con le aspettative di inflazione su scala mondiale che si stanno lentamente realizzando. A peggiorare la crisi dell’export italiano si è aggiunto il più imprevedibile degli elementi: la caduta del valore del dollaro rispetto all’euro. Un doppio colpo micidiale, che spiega le previsioni che diventano di mese in mese più pessimistiche. Secondo l’ufficio studi della Confindustria, le perdite per le imprese che esportano sul mercato americano arriveranno per il 2025 a 23 miliardi di euro. Il calo dell’export verso gli Stati Uniti, certifica l’Istat, è stato nel mese di agosto del 21,1 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, non certo compensato dall’aumento del 5,4 per cento verso gli altri Paesi europei. «È vero che il costo dei dazi ricade sugli importatori americani e quindi Donald Trump parla a vanvera quando esibisce incassi trionfali – spiega Angelo Baglioni, economista della Cattolica – però le restrizioni dell’interscambio collettivo pesano sugli esportatori europei semplicemente perché il mercato nel suo insieme si restringe». Non hanno avuto successo i tentativi di “sfondare” sul mercato americano accollandosi i tagli dei prezzi praticati come quello dei produttori di vino: «Abbiamo rinunciato al 17 per cento di margini – dice Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione italiana vini – ma il calo dell’export è stato comunque del 28 per cento». Analoghe sofferenze anche per altri settori d’eccellenza come la moda: meno 19 per cento, sempre in agosto 2025 su agosto 2024. E da qui in avanti potrebbe andare ancora peggio se a Trump salterà la mosca al naso per qualsivoglia motivo e alzerà ulteriormente i dazi, oppure se – l’altro fronte del problema – il dollaro accentuerà la sua caduta creando ancora maggiori difficoltà al Made in Italy. Un’inversione di tendenza sembra esclusa dagli economisti anche per le politiche opposte delle banche centrali. «Ci troviamo di fronte a uno scenario geopolitico complesso che richiede risposte straordinarie», sintetizza Alvise Biffi, presidente di Assolombarda.
Di straordinario, nel senso letterale di “fuori dall’ordinario”, c’è appunto, ancor più dei dazi, l’imprevisto rafforzamento dell’euro: era più o meno sulla parità con la valuta Usa all’inizio dell’anno. Oggi per comprare un euro servono 1,18 dollari, con una progressiva accelerazione. Un rincaro di 18 punti percentuali in nove mesi non si era mai visto nella storia. L’euro, pur essendo espressione di un Continente alle prese con i ben noti dilemmi di identità, si è rivalutato di più del “basket” delle altre valute, fermo al +12 per cento. Eppure, come ci spiega Brunello Rosa, professore di macroeconomia alla London School of Economics, «secondo le regole dei manuali di economia e soprattutto stando a quanto regolarmente accade, la moneta americana dovrebbe essere più forte perché l’economia americana, pur in rallentamento, cresce di più dell’economia europea».
L’outlook del Fondo monetario internazionale, presentato la settimana scorsa a Washington, prevede una crescita intorno al 2 per cento sia per quest’anno che per il prossimo in America e dello 0,6-0,8 per cento in Europa, dove gravano le perduranti sofferenze (per motivi diversi) di tutte e tre le maggiori economie: Francia, Italia e Germania, quest’ultima addirittura in recessione. E allora? «Entra in gioco il fattore Trump», risponde Rosa. «L’erraticità e l’imprevedibilità della politica economica Usa, unitamente agli attacchi all’indipendenza della Federal Reserve, hanno gettato in un tale caos da incertezza l’economia mondiale da motivare una fuga dal dollaro di dimensioni inusitate». Perfino i titoli del Tesoro americano, storico porto sicuro per gli investitori, sono finiti in discussione, «perché le dimensioni del disavanzo americano, ulteriormente accresciuto dai tagli fiscali di Trump, sono diventate tali da giustificare le paure sulla solvibilità stessa degli Stati Uniti», aggiunge Fedele De Novellis, economista della Bocconi e partner di Ref Ricerche. Il rapporto debito/Pil è al 123 per cento e raggiungerà, prevede il Fmi, quota 130 prima della fine del decennio: un livello “italiano” che giustifica il taglio al rating (gli Usa hanno perso quest’estate la tripla A) e spiega le perdite sul mercato dei cambi.
Tutto questo ha conseguenze infauste per gli esportatori, «e non solo quelli che si rivolgono al mercato americano», puntualizza Mario Baldassarri, presidente dell’Istao, il centro studi fondato ad Ancona da Adriano Olivetti. «Non dimentichiamo per esempio che i cinesi, fin dal loro ingresso nella World trade organization nel 2001, hanno agganciato la loro valuta, il renminbi, il cui valore è determinato dal governo di Pechino e non dalle libere fluttuazioni del mercato, al dollaro. Significa che l’invasione di merci cinesi in tutto il mondo, già favorita dal basso costo del lavoro in loco, è ulteriormente avvantaggiata dal fattore-cambi: la valuta viene tenuta su livelli bassi e le vendite sono facilitate. Sembra un dettaglio ma in momenti eccezionali come questo, è determinante». La sfida potrebbe essere un’altra, ambiziosa ed epocale: oltre a diversificare il più possibile le esportazioni europee e a modificare un modello di sviluppo sbilanciato a favore dell’export a danno della domanda interna, «è il momento di dare una spallata alla posizione internazionale dell’euro, nel senso di renderlo veramente solido e in grado di assumere il ruolo di “safe haven”, di bene-rifugio, su scala globale», afferma Marco Buti, che dal 2008 al 2019 è stato direttore generale per gli Affari Economici e Finanziari dell’Unione Europea. «Il terreno è favorevole: se si riusciranno a risolvere una buona volta le frammentazioni e a cancellare quelli che Mario Draghi definisce i “dazi interni”, insomma a creare una vera unione del mercato del debito e dei capitali, si potranno valorizzare i flussi monetari in direzione dell’Europa che già esistono per le incertezze che circondano il dollaro». A quel punto, ci spiega ancora Buti, si annullerebbero i pericoli di inflazione incontrollata e si abbasserebbero i tassi sui titoli europei, aprendo insperate possibilità di finanziamento per le imprese e per gli Stati all’affannosa ricerca di risorse pubbliche per investimenti infrastrutturali, il welfare, le pensioni, e ora anche la difesa comune, oltre ovviamente alla transizione “verde”.
Sarebbe un modo per risolvere quello che Barry Eichengreen, economista di Berkeley, chiama «il dilemma di Trump». Da un lato il presidente accusato di voler fare il re, o meglio l’imperatore, vorrebbe farsi vanto della forza del dollaro come simbolo dell’“America First”, dall’altro si rende conto che per gli Stati Uniti è più vantaggiosa la situazione attuale: un dollaro debole che rende più costoso esportare negli Usa. La posizione neo-isolazionista dell’America trova la massima esaltazione. Per l’euro è un problema in più, che però si potrebbe trasformare in opportunità. I mercati stanno già avallando questa mutata situazione: il dollaro costituisce il 55 per cento di tutte le riserve in valuta del mondo. A inizio secolo ammontava all’80 per cento. Per le transazioni commerciali, quelle in cui almeno una delle valute è il dollaro sono il 60 per cento contro il 95 per cento di 25 anni fa. Un quadro favorevole, perché la conseguenza numero uno della forza “involontaria” dell’euro si traduca in una forza “volontaria”. Serve però una decisa volontà dei Paesi europei.
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