Economia
17 dicembre, 2025La sicurezza dell’impianto e i progetti del governo dopo lo stop della magistratura. Mentre a cascata anche l’indotto rischia il blocco. Boccia: “Basta improvvisazione”
«Se arrivi in un posto del Sud per raccontarlo, leggi i quotidiani locali». Per comprendere a quale più recente tensione e lenta agonia sia sottoposta oggi l’ex Ilva, la più grande fabbrica del Paese si deve partire dalla lezione del cronista scomparso Enrico Fierro, esperto delle grandi questioni del Mezzogiorno. E, quindi, in questo caso, da un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno che ha rivelato che l’altoforno 1 dell’impianto siderurgico è stato inaugurato nell’ottobre del 2024 alla presenza del ministro Adolfo Urso, nonostante alcuni dispositivi di sicurezza fossero guasti. Il ministro, si obietta, non poteva saperlo. Ma ciò che è accaduto dal 7 maggio di quest’anno in poi è invece intimamente legato alle scelte del titolare del dicastero delle Imprese e del Made in Italy sulla più grossa partita industriale italiana degli ultimi 30 anni. «Bisogna che il governo la smetta con l’improvvisazione. Il ministro Urso ha presentato nel tempo tre piani diversi. L’ultimo è stato fallimentare e gli interlocutori sono scappati», dice il presidente dei senatori del partito democratico, Francesco Boccia.
Il 7 maggio 2025 è il giorno dell’incendio all’altoforno appena inaugurato e poi sequestrato dai magistrati, descritto agli inquirenti, dagli operai-testimoni, «come un qualcosa di mai visto prima». È da lì che origina ciò che sta accadendo da qualche settimana a Taranto e Genova.
Gli scioperi e i blocchi stradali dei metalmeccanici, i timori dei sindacati, l’auspicata chiusura della fabbrica da parte degli ambientalisti della “città dei due mari” e, infine, le contestazioni alla politica locale ben rappresentate dal dato delle Regionali –33,59 per cento di affluenza a Taranto – sono tutte parti di uno stesso affresco che riconduce alle scelte ministeriali.
Il rogo solo per caso non causò vittime. Ma nel decreto con cui il pm Francesco Ciardo ha rigettato l’istanza di revoca dei sigilli avanzata ad agosto dai legali di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria sono indicate cause non proprio fortuite. Si legge che, oltre al mancato funzionamento di una «termocoppia», cioè di un dispositivo che misura la temperatura durante il processo produttivo, ci sarebbero anche altre ragioni e, tra queste la «composizione della carica», cioè del materiale che viene introdotto nei forni per l’attività produttiva. Uno degli operai interrogato dai carabinieri dello Sicurezza sul lavoro, ha riferito di «materiale non ottimale che proveniva dal parco minerali e non dalla produzione della cokeria e dell’agglomerato e che è stato stoccato nell’altoforno; un prodotto più poroso, polveroso». Particolari, questi, che hanno convinto i giudici di Taranto a confermare il sequestro dell’impianto contestato dal ministro che ha attribuito ai magistrati la responsabilità di aver impedito una serie di attività che avrebbero consentito ad Acciaierie d’Italia di farlo ripartire.
Attualmente a Taranto è in funzione soltanto un altoforno, con una produzione giornaliera che si attesta attorno alle 4.000 tonnellate e a novembre l’unico impianto si è fermato quattro giorni per lavori di manutenzione. Negli impianti di Genova e Novi Ligure i magazzini sono semivuoti e – secondo i sindacati – il rischio di blocco della produzione a gennaio è abbastanza concreto.
Nel frattempo, il totale dei dipendenti di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria è pari a 9.741, di cui 7.938 soltanto nella fabbrica di Taranto, mentre il 29 settembre scorso il ministero del Lavoro ha ampliato la platea dei cassintegrati senza l’accordo con i sindacati. Così, oggi, ci sono 4.450 operai in cigs in tutti gli stabilimenti, di cui 3.803 a Taranto, 280 a Genova e 170 a Novi.
«Urso continua su una strada suicida, quella di convocare gli enti locali per discutere un piano che consideriamo come la morte della fabbrica, invece che fare tutto ciò che è necessario per salvare la produzione di acciaio in Italia», dice a L’Espresso Rocco Palombella, oggi a capo dei metalmeccanici della Uil e con un passato da operaio nell’ex Italsider. «Non vogliamo dividere cittadini e lavoratori, tutti vogliamo una vera decarbonizzazione, salvaguardando ambiente, salute e occupazione». Al centro delle rivendicazioni dei sindacati c’è il ritiro del cosiddetto “piano corto” che è stato presentato dal ministro Urso l’11 novembre e ha provocato la rottura delle relazioni con i rappresentanti dei lavoratori.
Francesco Brigati, a capo dei metalmeccanici della Fiom Cgil di Taranto, davanti ai cancelli della fabbrica segnala il rischio che nelle prossime settimane alcune aziende dell’indotto ex Ilva, a cascata, potrebbero chiudere i battenti. Insiste sulla necessità di un concreto intervento pubblico.
Al momento in campo ci sono i due fondi d’investimento americani, Bedrock e Flacks Group, e fonti vicine al governo hanno lasciato trapelare negli ultimi giorni l’interesse di Arvedi. Se sia un bluff non è dato saperlo, resta il fatto che a circa un decennio di distanza suonano profetiche le parole dello scrittore Alessandro Leogrande: «Il bivio davanti al quale Taranto è posta non riguarda la sola città. Se essa è stata a lungo lo specchio del Sud oggi è lo specchio dell’intera Europa, di come in un continente segnato dalla crisi politica ed economica si possano coniugare salute e lavoro, la salvaguardia del territorio e una vita degna di essere vissuta per tutti».
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Pedro Sánchez Persona dell'Anno - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 12 dicembre, è disponibile in edicola e in app



