Dietro le mosse che mirano a rifondare la finanza italiana, ci sono sentimenti forti, spesso antipatie, che condizionano le strategie: la lotta fra Milleri e Nagel, quella fra Caltagirone e Donnet, l'imprevedibilità di Orcel e le mosse di Marina B. E la politica? Debole e confusa, come insegna la storia del disegno di legge "Capitali"

Algoritmi affinati con l’intelligenza artificiale, arzigogolati piani industriali, economie di scala degli sportelli, dividendi miliardari garantiti: fesserie. La grande riffa dentro la finanza italiana, grande per la massa di banche e banchieri, scalati e scalatori che coinvolge, è soprattutto una questione di caratteri, non soltanto di capitali, come ha scritto Ferruccio de Bortoli. E la politica, cioè partiti e governo, fatica a muoversi tra fatturati fuori misura e narcisismi altrettanto fuori misura. Allora proviamo a raccontare una intricata questione di finanza come se fosse una intricata questione di caratteri.

 

Come se fosse un gigantesco dispetto

L’inizio lo fissiamo al 14 novembre 2024. Quel giorno il Tesoro ha collocato il 15 per cento del Monte dei Paschi e il blocco italiano ha fatto il suo ingresso a Siena. Il blocco italiano era composto da Banco Bpm, l’ex banca popolare di Milano ben radicata nel nord-est che aspirava a diventare il perno di un terzo polo bancario alle spalle di Intesa e Unicredit con l’implicita benedizione del governo; da Francesco Gaetano Caltagirone, azionista di Mediobanca (7,66%) e di Generali (6,92%); da Delfin della famiglia Del Vecchio gestita da Francesco Milleri, ugualmente azionista di Mediobanca (19,81%) e di Generali (9,93%). Caltagirone e Milleri si muovono assieme con obiettivi diversi. Caltagirone vorrebbe, lo diciamo senza perifrasi, rimuovere Philippe Donnet da Generali, mentre Donnet vorrebbe inanellare il quarto mandato di fila. E Milleri vorrebbe, anche qui lo diciamo senza perifrasi, rimuovere Alberto Nagel da Mediobanca, mentre Nagel vorrebbe scavallare il ventennio. Se cade Nagel a piazzetta Cuccia, cade Donnet a Trieste poiché Mediobanca col suo tredici per cento di Generali è tutte e quattro le gambe che reggono la poltrona di Donnet.

La memoria lunga 

I dissapori fra Caltagirone e Donnet sono ben stratificati e fanno riferimento alla scarsa attenzione che l’amministratore delegato di Generali ha dedicato ai soci di minoranza e alla sua propensione, secondo Caltagirone, a facilitare gli interessi francesi più che italiani. Invece Milleri non avrà perdonato, perché di certo Leonardo Del Vecchio non lo perdonò, il rifiuto che Mediobanca oppose al progetto di riqualificazione dell’Istituto Europeo di Oncologia con annessa donazione, di fatto era una acquisizione societaria, di mezzo miliardo di euro. Dunque il 14 novembre 2024, attorno alla risanata Mps (con denaro pubblico), i programmi di governo Meloni, Banco Bpm, Milleri e Caltagirone si sono allineati. Poi è subentrato Andrea Orcel di Unicredit, che ha lanciato una offerta pubblica di scambio per papparsi Banco Bpm e smontare le bozze di terzo polo (22 novembre 2024). Il governo non l’ha presa bene, tutt’altro. Orcel si appella al mercato e il governo alle regole, ma che sia finita il 22 novembre 2024 è parecchio improbabile. Comunque Caltagirone e Milleri non si sono mica arresi, figurarsi, anzi Orcel li ha tolti da una strada lunga, attraverso Mps-Bpm, per arrivare a Mediobanca e Generali.

La contromossa viene dopo Orcel

L’unico protagonista sconfitto il 22 novembre 2024 è Giuseppe Castagna, l’amministratore delegato di Banco Bpm: non soltanto i suoi antagonisti pensano che avrebbe potuto evitare l’intromissione di Orcel con una mossa più convincente e meno timida su Mps. Per Caltagirone e Milleri, rafforzate le partecipazioni in Mps, la strada breve per arrivare a Mediobanca e Generali è l’offerta pubblica di scambio del Monte dei Paschi su Mediobianca. Se non vogliamo banalizzare, possiamo presentarla come Siena romanizzata che va alla conquista di Milano perché, in maniera inevitabile, Caltagirone e Milleri hanno trascinato nell’impresa il governo che è pur sempre primo azionista di Mps. Nonostante le interviste rilasciate in serie per ipotizzare la bontà finanziaria-industriale di una unione tra Mediobanca e Monte dei Paschi, con la prima che vale il doppio della seconda, pochi davvero ci credono nel governo che avrebbe preferito la costituzione di un terzo polo bancario. Ci crede Fratelli d’Italia, che da sempre è premurosa nei confronti del Cavaliere Caltagirone. Ci crede un pezzo di Lega, la metà di Matteo Salvini, e un pezzo di Forza Italia, non è chiaro quale. Il segretario e ministro Antonio Tajani se ne tiene alla larga, e ripete a raffica che il governo deve mollare l’ultima quota di Mps. La cautela di Tajani deriva dall’ostentata neutralità della famiglia Berlusconi. Fininvest non ha più quote in Mediobanca, ne ha una, indiretta, per il tramite di Mediolanum che col 3,5 guida il patto dei soci.

Marina B. tiene la porta chiusa

La famiglia Berlusconi in Mediolanum segue la famiglia Doris. I rapporti fra Nagel e Doris sono eccellenti; la famiglia Doris ha invitato Nagel a un evento in memoria di Ennio e il figlio Massimo ha rivelato che Nagel voleva fondere Mediobanca con Mediolanum. Questi sono i trascorsi, però. Doris si defila, attende. A proposito di trascorsi. Nessuno sostiene che il ruolo di Mediobanca nell’assalto respinto di Vivendi a Mediaset ha lasciato cicatrici sulle relazioni fra Piazzetta Cuccia e la famiglia Berlusconi, ma allo stesso modo Marina e Pier Silvio si tengono a distanza. Talmente a distanza che, apprende L’Espresso, Marina non ha concesso udienza a Donnet. Per il momento meglio di no, non vedersi, non parlarsi. Al contrario Orcel, che è diventato una sorta di spauracchio del governo Meloni, si è infilato nella contesa su Mediobanca rastrellando circa il 4 per cento di Generali e Unicredit assume oggi una posizione da far valere domani. Come merce di scambio col governo, chissà. Orcel avrà subodorato che il governo Meloni non ha smaltito l’irritazione per lo sgarbo su Bpm-Mps. In questi giochi complessi, a volte pericolosi, non bisogna mai sottovalutare i caratteri. O assecondarli in maniera goffa, che è peggio. Un manuale lo si potrebbe scrivere attingendo dalla vicenda del disegno di legge “Capitali”. Le intenzioni erano nobili, e parzialmente sono state assolte: attirare investitori stranieri, evitare fughe all’estero.

Il Parlamento agitato

La parte più controversa, talmente controversa che l’autorità vigilante del mercato Consob deve ancora comunicare le sue interpretazioni, riguarda le norme che disciplinano la scelta del Consiglio di Amministrazione e il meccanismo di voto plurimo e multiplo che rende più difficile la presentazione delle liste per il Cda uscente. Per gli esperti del settore, per esempio i professori dell’Università Cattolica, queste nuove norme, approvate in Parlamento lo scorso anno senza voti contrari, introducono elementi di «instabilità» e di «disturbo». Al Senato si ragionò di voto plurimo e multiplo a tutela degli azionisti di minoranza durante l’audizione di Caltagirone che, nel suo discorso in sette punti citando Augusto e Settimio Severo (27 giugno 2023), disse ai senatori affinché Donnet intendesse: «La lista del consiglio rischia di sublimare quella che spesso è l’autoreferenzialità di manager che si impadroniscono delle società, come fossero roba loro, mediante un rapporto privilegiato con gli azionisti di breve termine». In commissione Finanze c’era il pienone. Anche Matteo Renzi per l’occasione: «Ho scoperto oggi dove è la sala». Fra mani sudate, timori e ossequi, «dopo tanta teoria, tanta pratica», così il presidente leghista Massimo Garavaglia chiosò l’intervento di Caltagirone, non ci fu una manifestazione di vigore parlamentare. Il senatore Fausto Orsomarso (Fdi), il relatore del testo di legge, smentisce qualsiasi supporto delle istanze di Caltagirone: «Noi volevamo proteggere le minoranze per un Cda che sia rappresentativo di tutti». Orsomarso dice il vero. In fondo, il disegno di legge “Capitali”, che andrebbe corretto presto, è servito a poco. Semmai a dimostrare che la politica è debole con la finanza. Senza carattere.