Economia
14 aprile, 2025

Ecco come sarà la fusione FiberCop e Open Fiber

Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia e delle Finanze
Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia e delle Finanze

Il governo, con la regia del ministero del Tesoro, prepara la società per la rete unica telefonica. Ci vuole fretta: per salvare le due società e per posare finalmente la fibra in tutta Italia. Il ruolo dei fondi stranieri. L'uscita dalla partita di Cassa depositi e prestiti. E le richieste degli australiani di Macquarie dopo aver investito oltre 2 miliardi di euro

Ci si diverte sempre con le telecomunicazioni in Italia: poche idee, spesso confuse, a volte pericolose. Appena un anno fa, neanche un anno fa, il governo Meloni – la sapiente regia era alla presidenza del Consiglio – varava lo scorporo della rete telefonica da Tim. Questo lo schema, anzi il pastrocchio: rame e fibra a FiberCop per connettere le scuole, gli uffici, le fabbriche della patria con internet in banda ultra-larga; i servizi telefonici, i vari resti del fu monopolio – tralicci di antenne, cavi sottomarini, archivi digitali – alla Tim risanata e però bloccata dai francesi di Vivendi. Questo schema non vale più. Il governo s’è già smentito. E per fortuna, verrebbe da dire. E va bene, lo diciamo.

 

Con un investimento complessivo in Tim di circa 850 milioni di euro e una quota del 24,8 per cento del capitale (potrebbe lievitare a determinate condizioni), Poste Italiane ha scongiurato l’ennesimo spezzatino per mano straniera dell’ex Telecom ormai ridotta all’osso, in forma certo, con meno debiti e meno dipendenti, proprio perché ossuta. Adesso il gruppo guidato da Matteo Del Fante amministratore delegato e Giuseppe Lasco condirettore generale, risolto l’ostruzionismo francese di Vivendi e fermata la svendita del patrimonio, può immaginare un domani competitivo per Tim che vada oltre l’ordinata ritirata, il sereno tirare a campare.

 

Messa a letto Tim, adesso il Tesoro, che ripara gli errori della presidenza del Consiglio, si concentra, e con una particolare urgenza, sulla fusione fra FiberCop e Open Fiber. Qui è d’obbligo una premessa, perdonate se lunga. Come già accennato, FiberCop è una costola di Tim, il risultato di un’operazione da 18,8 miliardi di euro, conclusa lo scorso luglio, che ha generato una platea di azionisti con obiettivi misti, se non contrapposti. A capo il fondo americano Kkr con il 37,8 per cento; a 17,5 seguono un fondo pensionistico canadese e un fondo sovrano emiratino; a 16 il ministero dell’Economia; a 11,2 il fondo infrastrutturale italiano F2i.

 

Per Kkr sembrava un affare, con una spesa inferiore ai 4 miliardi di euro era riuscito a ottenere la guida di una società di assoluta rilevanza per l’Italia, peraltro blindata da un contratto pluriennale con Tim, nei panni di cliente, che deve garantire 2 miliardi di euro. Gli americani già pregustavano facili, sicuri, lauti dividendi senza fare troppo. Nel giro di una manciata di mesi hanno scoperto che la realtà è ben diversa dal contratto di acquisto: cablare l’Italia è un rischio, e la burocrazia per i cantieri, e la rapida svalutazione della rete in rame, e la concorrenza di Open Fiber. Un esempio: i ricavi previsti per il 2024 erano di 4,1 miliardi euro, all’appello sono mancati almeno 200 milioni. Luigi Ferraris è durato un semestre da amministratore delegato; da un paio di mesi il presidente Massimo Sarmi cerca il successore, ma in tanti, manager qualificati, hanno ringraziato e declinato l’invito.

 

Open Fiber è una brillante idea del governo di Matteo Renzi che lo Stato da un decennio si trascina con la leggerezza di Sisifo. Open Fiber doveva portare le connessioni veloci ovunque, soprattutto in periferia/montagna/entroterra, insomma dove il mercato non sussiste e perciò riceve appalti e miliardi pubblici, e invece sta ancora qua ad approvare perdite di esercizio (364 milioni di euro nel 2024), a controfirmare piani di investimento (10 miliardi fino al 2034), a ricalibrare ulteriori finanziamenti di soci e banche (2 miliardi di euro).

 

Il ministro Giancarlo Giorgetti (Economia e Finanza) vuole intervenire con buon senso, e vuole intervenire presto. Per connettere davvero l’Italia c’è bisogno di una fusione FiberCop e Open Fiber. Non è un imprevisto, vero, ma oggi è una priorità.

 

Per fare in fretta, il Tesoro ha già consultato in via informale la Commissione europea e ha individuato un modo per evitare lungaggini: Open Fiber deve cedere le sue attività nelle “aree nere”. Le aree nere sono quelle dove c’è maggiore concentrazione di offerta, dove il mercato è più redditizio, poi ci sono le aree grigie e le aree bianche con le ovvie differenze e gradazioni. In sostanza Open Fiber dovrebbe conferire in FiberCop i suoi collegamenti in fibra realizzati o da realizzare in aree grigie e bianche.

 

Open Fiber è controllata da Cassa depositi e prestiti (60 per cento): uscita da Tim per far spazio a Poste, Cdp lascerà direttamente al Mef. Non è un problema. Semmai il tema è come liquidare gli australiani. Il fondo Macquarie è sbarcato in Open Fiber alla fine del 2021 rilevando, assieme a Cdp, il 50 per cento detenuto da Enel. La metà di Open Fiber fu valutata 2,733 miliardi di euro, e dunque gli australiani hanno versato 2,2 miliardi per il 40 per cento. Non proprio un grande colpo. Fonti vicine a Macquarie fanno sapere che gli australiani sono «disponibili esclusivamente a prendersi le aree nere di Open Fiber», ma non vogliono far parte di una nuova FiberCop. Fissare il prezzo per farli uscire non sarà facile. Quelli di Kkr sono più silenti perché si giocano molto di più. Probabilmente la fusione è una opportunità futura, di sicuro è un salasso immediato. In caso di fusione di FiberCop e Open Fiber entro il 2026, il consorzio capeggiato da Kkr dovrà farsi carico di una integrazione economica per Tim di 2,5 miliardi di euro. Dopo le prime indiscrezione sulla fusione, Alberto Signori di Kkr si è lasciato andare a una timida dichiarazione: «C’è una volontà del governo italiano di vedere se ci sono le condizioni per farla e risparmiare sugli investimenti». Nient’altro. Vogliono ridurre la quota in FiberCop? Vogliono rilanciare il progetto? Non commentano. Pazienza.

 

Il Tesoro va avanti con lo studio della fusione. Stavolta la strategia è al ministero di Giorgetti, non più a Palazzo Chigi dal capo di gabinetto Gaetano Caputi. In Via XX Settembre c’è qualcosa di più deciso di una semplice «volontà». Non per domare i capricci dei fondi che si lamentano dei dividendi che si allontanano oppure che non s’intravedono neppure, ma perché i ritardi italiani con la fibra ottica sono ormai insostenibili. Questa non è una mossa statalista, è una mossa di buon senso che tenta, nel settore, di rendere lo Stato non più succube dei fondi, ma guardiano dei suoi interessi. Tant’è che la nuova FiberCop con dentro Open Fiber non avrà lo Stato come azionista principale, ma avrà lo Stato che conterà il giusto. Inciso: e lo farà con il ministero del Tesoro non con Cassa depositi e prestiti. Dopo quasi trent’anni di molteplici tentativi, alcune oscenità, clamorosi fallimenti attorno a Telecom e derivati, forse lo Stato ha una ricetta valida per le telecomunicazioni. Si sbrighi, il malato è grave.

L'edicola

Ustica: la verità sulla strage - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 11 aprile, è disponibile in edicola e in app