Recessione e deflazione: il dazio Usa è più amaro per l’Unione europea

Da quando Trump ha iniziato la guerra tariffaria, l’attenzione di mercati e stampa internazionali si è concentrata sugli effetti che essa avrà sugli Stati Uniti: andranno in recessione? Wall Street continuerà a scendere? Il dollaro perderà il suo stato di valuta riserva? Tutti quesiti importanti, ma, per gli europei, non necessariamente i più rilevanti. Per noi, infatti, le questioni più importanti riguardano cosa accadrà all’economia, all’inflazione e ai tassi di interesse nei nostri Paesi.

 

Secondo le nostre analisi, e contrariamente ai commenti dei più, le economie europee, da quella della Eurozona – cui appartiene l’Italia – a quella della Gran Bretagna e alle altre minori, sono purtroppo più vulnerabili di quella americana alla crisi internazionale nelle forme in cui si sta manifestando, e ai rischi che essa comporta sia di recessione, sia di deflazione. Sì, avete capito bene: deflazione, ossia di caduta dei prezzi: l’opposto dell’inflazione, ma un pericolo altrettanto insidioso per il benessere di uno Stato.

 

Già prima della crisi, l’economia in Europa non andava bene: nel 2024, la crescita del Pil è stata pari circa all’un per cento nell’Eurozona e nel Regno Unito, e a un ancor più basso 0,7 per cento nel nostro Paese, dove ha anzi registrato una preoccupante stagnazione nella seconda metà dell’anno. Una performance ben lontana da quella, stellare, degli Usa, dove l’espansione economica nello scorso anno è stata pari a quasi il 3 per cento.

 

Il problema è che, partendo dai livelli anemici della crescita economica europea, il passo verso la recessione è breve, più che per gli Usa: fermare un elefante in corsa richiede molta più forza rispetto a quella che serve per arrestare un ronzino dal passo malfermo. In altri termini, anche a parità di shock economico, le probabilità che l’Europa cada in recessione nel corso del 2025 sono ben maggiori che per gli Usa.

 

Da un lato, con l’esclusione pur rilevante della Cina, nessun grande Paese ha, almeno per il momento, effettuato ritorsioni tariffarie sugli Stati Uniti, mentre l’Europa nel suo complesso ha visto le tariffe imposte da Trump sull’export verso gli Usa registrare aumenti compresi fra il 10 e il 25 per cento. Dall’altro lato, due altri importanti fattori negativi – conseguenza dello shock tariffario – si stanno abbattendo sulle economie Europee, ma non su quella Usa: l’apprezzamento del cambio e l’aumento della concorrenza cinese. Anche se non tutti se ne sono accorti – gli imprenditori italiani sicuramente sì – il cambio dell’Euro si è apprezzato in poche settimane in misura molto consistente, pari a circa il 10 per cento, non solo nei confronti del dollaro, ma anche del renminbi cinese. La valuta dell’area economica di gran lunga più debole che si apprezza rapidamente nei confronti dei due più grandi, e molto più forti, partner commerciali: non solo «controintuitivo», per usare le parole della Presidente della Bce Christine Lagarde, ma anche estremamente dannoso per l’economia europea, sempre più vaso di coccio fra i vasi di ferro di Usa e Cina. In termini effettivi – ossia nei confronti della media dei principali partner commerciali – il cambio dell’Euro è salito ai livelli massimi storici.

 

Per valutare appieno l’entità degli effetti dell’apprezzamento dell’Euro sull’economia del Vecchio Continente, può essere utile considerare che esso è pari all’incirca al doppio di quello che scaturisce dall’aumento delle tariffe Usa imposte da Trump. Ma non è tutto. Si deve infatti anche considerare che una enorme mole di beni cinesi, non più vendibili negli Usa vengono dirottati verso altri mercati, in primis quelli europei, dove saranno venduti presumibilmente a prezzi scontati, con l’effetto non solo di spiazzare i produttori locali, ma anche di generare effetti deflazionistici.

 

Considerando tutti i fattori menzionati, il rischio che l’eurozona possa cadere in recessione è elevato. Inoltre, vanno considerate anche le conseguenze sul fronte dei prezzi. Il forte rallentamento congiunturale, unito all’apprezzamento del cambio, alla prevedibile “invasione” di beni cinesi e alla forte riduzione in corso delle quotazioni dell’energia – quelle del petrolio e del gas, espresse in Euro, sono scese da inizio anno di circa il 20 e il 40 per cento – sono tutti fattori che si traducono a loro volta in forti pressioni verso il basso sulla dinamica dei prezzi al consumo. La Bce prevedeva in marzo un tasso di inflazione dell’indice dei prezzi armonizzato pari all’1.8 per cento per la fine del 2026: le nostre previsioni erano più basse, pari all’1.5 per cento o anche meno. Se consideriamo i fattori disinflazionistici sopra menzionati, scendiamo a valori dell’1 per cento o meno, inferiori all’obiettivo del 2 per cento della Bce e con rischi che la dinamica dei prezzi si possa avvicinare pericolosamente alla deflazione nel caso in cui vi sia una recessione acuta.

 

Cosa possono fare gli Europei, quanto meno per lenire – eliminarli è pressoché impossibile – gli effetti avversi dello shock tariffario in termini di rallentamento congiunturale e di potenziale deflazionistico sull’economia del continente? In mancanza di una politica fiscale comune e dell’emissione di debito comune, una prima, basilare risposta non può che venire dalla politica monetaria: è un’arma potente ed efficace per contrastare questo tipo di shock e, per l’Eurozona, l’unico strumento di politica economica comune a disposizione.

 

La Banca Centrale Europea  non ha una purtroppo una storia incoraggiante in quanto a capacità reattive nello stimolare l’economia europea: nella gran parte dei casi ha agito quando ormai era troppo tardi, dovendo ricorrere alla fine anche a tassi di interesse negativi, al contrario della Federal Reserve americana o della Bank of England. Vogliamo sperare che questa volta a Francoforte sappiano reagire con maggiore prontezza rispetto a quanto fatto finora: i 25 punti base di taglio ad aprile non sono assolutamente sufficienti a contrastare neanche la sola restrizione indotta dal rialzo dell’Euro, che infatti non si è mosso nei giorni successivi alla mossa della Bce. Vogliamo sperare che la banca centrale cambi passo a partire dalla prossima riunione del Consiglio Direttivo di giugno, riduca i tassi ufficiali di almeno 50 punti base, e continui a farlo – verosimilmente almeno fino all’uno per cento – per ottenere quanto meno di invertire un rafforzamento del cambio che nulla ha a che fare con i fondamentali dell’economia europea rispetto a quelli, decisamente più forti, di quelle americana e cinese. L’alternativa sarebbe quella un vaso di coccio sgretolato da due vasi di ferro.

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