Siamo nella stagione dei «conflitti tristi», la definizione è di Aldo Bonomi (Sole 24 Ore, 2 novembre), e il pensiero va subito agli sciagurati che hanno sfilato travestiti da deportati nei campi di concentramento nazisti per protestare contro il green pass, semplicemente disgustosi, o a quell’altro che ha messo le seggioline in piazza del Popolo per aspettare il papa e Biden.
La protesta no green pass è triste, povera di argomenti, è una mobilitazione di individui soli, prigionieri delle loro paure, ossessioni, frustrazioni, ostilità verso i media che però sono il loro unico contatto con il mondo, il veicolo dei loro incubi ma anche la certificazione della loro esistenza. Poi leggi i dati sul lavoro precario, i cinque milioni di italiani che guadagnano meno di 10mila euro lordi l’anno, il lavoro che si concentra nelle fasce meno specializzate mentre cresce il divario con l’area dell’euro nelle fasce più qualificate, secondo l’ultimo report presentato il 2 novembre dalla fondazione Giuseppe Di Vittorio e c’è la tristezza senza conflitto, perché questi lavoratori, al pari dei precari, non agitano il dibattito mediatico, non si presentano in corteo mascherati, sono invisibili e quindi inesistenti.
Eppure è lì che si nascondono le disuguaglianze e il potenziale serbatoio di una nuova, radicale contestazione al sistema che tradisce le attese democratiche, la divisione tra «una società politica a legittimazione stretta e la società larga a domanda crescente di qualità sociale e ambientale», come la chiama Bonomi, destinata a dare nuove munizioni alla «metamorfosi carsica dei populismi», tutt’altro che sconfitti, come «il mercurio quando esce dal termometro».
Il termometro è il protagonista della politica mondiale: l’impegno a bloccare il surriscaldamento del pianeta al tetto massimo di più 1,5 gradi assunto al G20 di Roma e alla Cop26 di Glasgow. Insieme al calendario, generico, un impegno «attorno alla metà del secolo» per le emissioni zero, ma la Cina estende la data fino al 2060 e l’India del premier Narendra Modi entro il 2070. Il termometro e il calendario rappresentano la sfida che vale l’intero secolo, la battaglia per cui si mobilitano i ragazzi e le ragazze che oggi riempiono le piazze e che tra cinquant’anni verosimilmente saranno la classe dirigente globale. Tra loro ci saranno i ministri, i politici, gli imprenditori, gli intellettuali e i premi Nobel, mentre i leader di governo che oggi firmano con difficoltà anche impegni generici non ci saranno più da tempo.
Pedro Sanchez, Olaf Scholz ed Enrico Letta
Nel mezzo, nel periodo di mezzo che siamo chiamati a vivere le destre sovraniste, come si è detto, organizzano la risposta della negazione: la negazione degli effetti del cambiamento globale, dei diritti umani dei migranti, dei nuovi diritti civili. Mi ha colpito il tweet di Lavern Spicer che ha messo la foto di papa Francesco con il presidente americano dopo l’udienza in Vaticano sotto la scritta: «Communists». «Papa Francesco e Biden sono entrambi comunisti: vogliono la fine dei confini e la necessità di un più giusta distribuzione della ricchezza», scrive Spicer, che non è una utente anonima ma è stata candidata al Congresso per il Partito repubblicano di Trump un anno fa, non eletta. Il presidente Usa e il papa di Roma, in epoca di guerra fredda considerati i pilastri dell’Occidente contro il blocco sovietico, oggi per la neo-destra sono seguaci di Lenin. Sono in tanti gli epigoni italiani a pensarla così: per esempio chi ha applaudito il presidente brasiliano Jair Bolsonaro.
Molto più complessa da definire e da organizzare è la risposta di quella parte che negli ultimi due secoli è stata definita sinistra. La sinistra occidentale e europea che è stritolata nel mezzo. Da un lato, è attratta dall’irresistibile tentazione di farsi establishment, politico, economico, culturale, mediatico, di costituirsi come la pietra fondante della “società stretta” che in un sistema democratico ha comunque la necessità di una base di consenso popolare. Dall’altro, considera residuale la moltitudine degli isolati che lasciati senza rappresentanza diventano facile terreno di caccia per gli imprenditori politici del risentimento, fino ad arrivare a imprese oscure e in potenza pericolose, come racconta Lirio Abbate nell’inchiesta di copertina sulla rete dei suprematisti italiani.
La sinistra che in Italia grida alla fine del populismo dopo la vittoria a un turno di una elezione amministrativa. La sinistra che in Italia e in Europa trova alimento nei movimenti, da quello Lgbtq+ a quello ambientale, ma che non riesce a costruire un impianto identitario, diciamo pure ideologico, in cui le singole battaglie possano diventare i tasselli di un progetto politico più ampio. La politica significa mediazione, rappresentanza di valori e di interessi solidi, materiali, concreti, come solide sono le ingiustizie sociali. La politica è governo delle differenze - perché ogni differenza estremizzata finisce per diventare iniqua e, al fondo, anti-popolare - e decisione per il bene comune. La politica è conflitto per il potere e gestione del potere per governare e decidere.
L’ha detto negli ultimi giorni l’ex presidente francese François Hollande nel suo libro “Affronter” (Stock): «Non esiste democrazia senza un grande partito con idee forti. Senza ideologie che strutturano le opinioni, le ideologie trovano spazio». E ancora: «Sono socialista, voto per Anne Hidalgo. Ma il progetto per la Francia non può essere quello pensato per Parigi. Il punto non è più biciclette e meno auto, ma come diminuire la quota delle energie fossili e come redistribuire le risorse. È la socialdemocrazia» (Corriere della Sera, 30 ottobre). Lo stesso ha detto il premier spagnolo Pedro Sánchez: «La Spagna ha coniato il termine di “transizione ecologica giusta”, perché senza giustizia sociale non ci può essere una transizione appoggiata dall’insieme della società, che si deve sentire protagonista» (Repubblica, 31 ottobre).
In Germania si prepara a governare la gloriosa e attempata socialdemocrazia, fondata, come si direbbe nei documenti del G20, attorno alla metà dell’Ottocento. Il 27 ottobre Progressive Society, l’iniziativa promossa nel 2018 dall’Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici, il gruppo del Parlamento europeo di cui fa parte anche l’italiano Pd, ha lanciato un documento sull’uguaglianza sostenibile intitolato, non per caso, The Great Shift, la Grande Svolta.
Nel documento di parla di politiche sociali e ambientali che devono integrarsi profondamente, di coesione sociale, di contrasto alla precarietà e alle disuguaglianze come obiettivo di una politica di progresso “socio-ecologico”, di partecipazione diffusa a ogni livello, di cambiamento del sistema capitalistico che «con dinamica miope di competizione ad alta intensità, associata a una concentrazione esponenziale dei mercati e del potere decisionale economico ha prodotto un settore finanziario gonfiato e focalizzato sul breve periodo, una concentrazione e un’accumulazione esponenziale della ricchezza e del potere rese possibili anche da un’evasione fiscale organizzata, massiccia e globale. Una miscela che ha provocato un danno incalcolabile al nostro pianeta».
Non si tratta dunque, soltanto, di piantare miliardi di alberi. Ma di sprigionare un nuovo processo politico: redistribuzione di risorse, redistribuzione di poteri, includere nelle decisioni parti sempre più ampie della società. Quello che sta provando a fare, tra mille contraddizioni, l’amministrazione democratica di Joe Biden. È sulla base di quel progetto politico che un anno fa 84 milioni di elettori hanno votato per il candidato rivale di Donald Trump.
È quella che Stefano Liberti chiama conversione ecologica, la parola dall’Espresso per raccontare la settimana della Cop26 di Glasgow. Parola ben più impegnativa della gentile, rassicurante moderata transizione, che allude a un cammino lineare e senza scosse da un punto all’altro. Conversione significa mutamento, trasformazione, cambio di strada, radicale, conflittuale. Impone una battaglia, prima di tutto con se stessi.
Da noi in Italia questo legame tra identità, progetto, organizzazione e rappresentanza si è spezzato. Di tutto questo non si parla, non si discute. Il Pd di Enrico Letta oscilla tra l’essere il partito di Draghi, come vorrebbe qualcuno, e l’asse portante di un nuovo Ulivo che, come spiega Rosy Bindi a Susanna Turco, rischia di trasformarsi in una nuova Unione, ovvero non un progetto di governo ma un carrozzone di ceti dirigenti senza truppe.
Il Pd è stata la via italiana alla ricerca di qualcosa che andasse oltre i recinti della vecchia sinistra (ne parlano sull’Espresso Massimiliano Panarari, Mauro Calise e Marco Valbruzzi). Ma ora è necessario andare oltre il Pd. E per farlo le identità vanno rafforzate, non scolorite. Intanto, si avvicina il momento di scelta del nuovo Capo dello Stato e sono rimasti senza risposte da più di un anno i temi istituzionali: la legge elettorale, il ruolo del Parlamento, l’assetto Stato-regioni.
Il ministro leghista Giancarlo Giorgetti ha avuto il merito di aver posto la questione di Draghi al Quirinale nei giusti termini. Un passaggio del premier da Palazzo Chigi al Quirinale significa un mutamento di portata costituzionale, il semi-presidenzialismo di fatto. Si può avversare questo scenario oppure auspicarlo. Draghi presidente può diventare la figura che riporta il sistema democratico nella fisiologia di un confronto politico e elettorale tra sinistra e destra, chiudendo la fase dell’emergenza. Ma allora serviranno opportuni correttivi nella Costituzione, non si può ignorare questo passaggio o trattare l’elezione del presidente come ordinaria amministrazione o come sterilizzazione del dibattito.
Anche il sistema politico italiano ha vissuto la sua transizione. Una transizione senza conversione dei partiti, dei leader, delle istituzioni, dei comportamenti e delle mentalità. Destinata a non portare da nessuna parte, come infatti è avvenuto. E ora siamo di nuovo al bivio.