Senza idee e strategia, l’elezione del Capo dello Stato si sta rivelando tutto il contrario della successione serena desiderata da Mattarella. E del ritorno alla normalità democratica

«Pien di misfatti è il calle della potenza...», si lamenta lady Macbeth nell’opera di Giuseppe Verdi rappresentata il 7 dicembre nel teatro della Scala, in quella storia shakespeariana di tragedia del potere, di streghe e di fantasmi. Mentre in platea ancora riecheggiavano i cinque minuti di standing ovation della Scala indirizzati a Sergio Mattarella, con l’invocazione di un bis al Quirinale. Il tributo al presidente della Repubblica uscente è l’omaggio per l’ultima volta al capo dello Stato nel rito ambrosiano laico nel tempio della musica. Ma anche il riflesso di una vertigine, il senso di vuoto che suscita il passaggio atteso nei prossimi quaranta giorni, la successione al Quirinale.

 

Mattarella si sforza da mesi di trasmettere serenità, il voto dei Grandi Elettori per la persona che occuperà la figura al vertice delle istituzioni non è l’ordalia, la prova del fuoco, in democrazia dovrebbe essere un passaggio naturale. Così lo interpreta il presidente uscente, espressione e icona della force tranquille, come si candidò a essere quarant’anni fa per i francesi François Mitterrand nel famoso slogan della campagna elettorale inventato per lui da Jacques Séguéla. Ma è in solitudine, anche in questa tenace rivendicazione di normalità istituzionale. Il resto del sistema non è tranquillo e non è neppure forte, anzi, è percorso da una strana nevrosi, sintomo inequivocabile di una debolezza che potrebbe avvitarsi in paralisi.

 

In copertina proviamo a scherzarci su, con il toto-presidente che impazza da settimane sui giornali e nelle conversazioni riservate e che rischia di far somigliare la corsa per il Quirinale al cinico Squid Game della serie, una gara a eliminazione diretta. Non c’è da scandalizzarsi troppo perché è sempre stato così nella storia, e in alcuni momenti drammatici l’elezione del capo dello Stato è stata anticipata o ha coinciso con momenti bui e sanguinosi. Ma la differenza con il passato, in vista del voto del 2022, è che nessun leader e nessun partito sembra essere in grado di indirizzare la scelta. E gli effetti si vedono. Si rischia di toccare il più delicato meccanismo costituzionale, con un gioco di incastri di cariche vacanti, il ministro anziano Renato Brunetta presidente del Consiglio per poche ore in tandem con la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati capo dello Stato supplente con il tricolore appeso a Palazzo Giustianiani. Così Forza Italia avrà il suo premio di consolazione per la mancata elezione del suo fondatore al Quirinale, con le più alte cariche ricoperte da due suoi esponenti, anche se in funzione vicaria.

 

Tutto ruota sulla possibilità che Mario Draghi venga eletto tredicesimo presidente della Repubblica, trasferendosi direttamente da Palazzo Chigi al Quirinale. Sulle sue reali intenzioni c’è un enigma che non sarà sciolto prima della conferenza stampa di fine anno, tradizionale appuntamento di bilancio di un anno di governo, prevista per il 22 dicembre a villa Madama. Tra dieci giorni, forse, sapremo. Nell’attesa i partiti sondano: se stessi e l’opinione pubblica. Nel Pd circola la rilevazione di uno degli istituti più autorevoli che ha chiesto agli intervistati di dichiarare la loro percezione sulla identità politica del premier. La sorpresa è che prima dell’estate per un terzo degli italiani Draghi andava collocato in uno schieramento di centrodestra e poco più del venti per cento lo vedeva come un esponente del centrosinistra, mentre nei mesi successivi la proporzione si è invertita e oggi un terzo o più degli italiani considera Draghi un riformista di centrosinistra. Un cambiamento di percezione che spinge Enrico Letta a considerare con attenzione la possibilità di una candidatura Draghi al Quirinale.

Oggi nessun partito davvero vuole eleggere presidente della Repubblica il premier, con una motivazione sbagliata che copre le giuste preoccupazioni di sconfinamento istituzionale. La motivazione sbagliata è agitare lo spirito di revanche dei partiti e del Parlamento nei confronti del super-tecnico che li ha commissariati. Con questo spirito si rischia di produrre l’effetto opposto: un Parlamento paralizzato, in ostaggio dei partitini di centro egemonizzati da Matteo Renzi e sotto il ricatto dell’espanso gruppo Misto esplorato da Carlo Tecce sull’Espresso di questa settimana. Senza una soluzione forte alla prima votazione, nella palude del Misto dove si sono rifugiati gli ex 5 Stelle e gli ex berlusconiani può succedere di tutto.

 

Draghi può arrivare al Quirinale per una scelta o per una necessità. La scelta di Draghi sarebbe per il Pd qualcosa di simile a quella che fu la posizione agnostica della Dc nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. La Dc non si schierò tra Repubblica e monarchia, ma con questa astensione in apparenza incomprensibile riuscì a trascinare l’elettorato monarchico nell’appoggio della nascente Repubblica e a diventare il partito guida della nuova epoca. Così la scelta di Draghi, che non è il candidato preferito di Enrico Letta, avrebbe il senso di mettere in sicurezza la casa di tutti per poi dedicarsi a riprendere una dialettica politica fondata sulle differenze. Se invece Draghi dovesse arrivare al Quirinale per necessità, dopo una sequenza di manovre, trappole, tradimenti, candidature bruciate, incapacità di uscire dal vicolo cieco, con il bar di Guerre Stellari del gruppo Misto che diventa decisivo, allora per i partiti sarebbe un suicidio e per il Pd una catastrofe.

 

Dopo il passaggio del Quirinale, invece, sarà urgente tornare alla politica, dopo una legislatura di impazzimento democratico. La distinzione destra-sinistra è stata considerata nei decenni precedenti un ferrovecchio del passato, c’era l’indistinto liberaldemocratico, l’eterno presente del neo-capitalismo. Abbiamo sostituito la dialettica destra-sinistra con quella tra il vecchio e il nuovo, già negli anni Ottanta della rivoluzione liberale.

 

Nel nuovo secolo è arrivata la contrapposizione tra alto e basso, l’assalto dei populismi contro i professionisti della politica e i professionisti dell’informazione, tutti indistintamente accomunati nella casta, e contro le élite della tecnica e della finanza globalizzata. Negli ultimi mesi questa frattura si è trasferita sul terreno della pandemia con il nuovo cleavage tra i vaccinati e i no vax, alimentati dall’ossessiva presenza mediatica dei loro esponenti, anche i più inquietanti o grotteschi, che coprono le voci degli intellettuali ben più consapevoli ma attratti dal fragore della rissa. Sotto il mantello del governo di unità nazionale ci sono nuove lacerazioni che aspettano di trovare un luogo per esprimersi.

 

Lo sciopero generale della Cgil e della Uil (la Cisl non aderisce) è difficile da spiegare, se non in questo contesto, è un tentativo - quasi disperato - di riportare nell’agenda della politica, almeno per un giorno, le condizioni del lavoro, il grande dimenticato di questa stagione, e al suo interno il ruolo del sindacato, in crisi di rappresentanza. Ma la Cgil che è sempre stata nella sua storia una grande forza tranquilla, dimostra anche in questo passaggio la sua debolezza e fragilità.

 

Questione istituzionale e questione sociale sono destinate a intrecciarsi nelle prossime settimane, in assenza della politica, in quel quadro che papa Francesco ha definito di «arretramento della democrazia», di «scetticismo democratico». Il discorso del 5 dicembre, pronunciato nel palazzo presidenziale di Atene, fotografa la stanchezza della democrazia nel paese che ne è stato culla, nell’Europa assediata al suo interno dalla pandemia e al suo esterno dai venti di guerra che arrivano dal fronte dell’Est, in Ucraina, e dalla reazione dei regimi sovranisti come l’Ungheria (il reportage di Bianca Senatore è sull’Espresso di questa settimana). Di questo arretramento della democrazia, come sempre, l’Italia è laboratorio privilegiato, come è stata più volte nella storia terreno di partecipazione e di elaborazione di frontiere più avanzate, di progetti collettivi. Quello che manca e che non si può delegare alla scelta del nuovo presidente della Repubblica, pur importante e decisiva.

 

Mentre era in chiusura in redazione questo numero è arrivata la notizia che Patrick Zaki era tornato libero, ma non assolto, dopo quasi 700 giorni di ingiusta detenzione. La aspettavamo tutti e la accogliamo con gioia, sapendo che la battaglia legale e politica non è ancora finita e che la mobilitazione deve continuare. A lui dedichiamo la parola della settimana scritta da Francesca Mannocchi e l’inserto all’interno del giornale, con i ritratti di Patrick disegnati da Zerocalcare, Fumettibrutti, LRNZ, ZUZU, Antonio Pronostico, Rita Petruccioli e Sergio Algozzino, ciascuno con il suo tratto e la sua visione. In Patrick Zaki, ragazzo del mondo e cittadino d’Italia e d’Europa, come Giulio Regeni e Antonio Megalizzi, identifichiamo la parte migliore del nostro impegno civile e giornalistico, la battaglia per i diritti universali di libertà. Perché «pien di misfatti» sono le vie del potere, ma è la presenza di un’opinione pubblica informata e critica a fare la differenza tra il regno di Macbeth e la democrazia.