Il potere per gli elettori di scegliere i parlamentari e il governo, la partecipazione alle proposte di legge, il finanziamento pubblico: abbiamo bisogno di una riforma dei partiti e del Parlamento, chiamato al voto sul capo dello stato

Vorrei che questo numero dell’Espresso, il primo dell’ultimo mese del 2021, fosse interpretato dai lettori come un rapporto sullo stato di salute della nostra democrazia. La prima legge sul finanziamento pubblico dei partiti fu approvata dopo lo scandalo dei petroli nel 1974, nel mese di maggio, un momento storico della nostra vicenda repubblicana, cominciato con il no degli italiani all’abrogazione del divorzio, che rivelava per la prima volta la spaccatura, la distanza abissale che si era spalancata tra i partiti e la società civile, e terminato con la strage di piazza della Loggia a Brescia. Un primo referendum abrogativo promosso dai radicali, nel 1978, raccolse più del 43 per cento, nonostante la contrarietà di quasi tutte le forze politiche. Nel 1993, in piena Tangentopoli, in un altro referendum il fronte dell’abolizione conquistò il 90 per cento dei voti.

Nonostante questo, ai partiti arrivarono 2,3 miliardi di euro in 18 anni, e nel 2002 il club dei tesorieri dei partiti, guidati da Ugo Sposetti all’epoca uomo dei soldi dei Ds, riuscì a far approvare una legge sui rimborsi elettorali che ripristinava quello che era stato eliminato. Potevano attingere ai fondi pubblici le liste che alle elezioni avevano raggiunto l’uno per cento e per cinque anni, la durata dell’intera legislatura, anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere. Alle elezioni del 2006 e del 2008 i partiti investirono 2,47 euro per cittadino e ne ebbero indietro 10,5. Una pioggia di milioni. E lo scandalo finale, quando il 30 gennaio 2012 l’Ansa lanciò una notizia che suonava incredibile: «L’ex tesoriere della Margherita e attuale senatore del Pd Luigi Lusi è indagato dalla Procura di Roma per appropriazione di somme relative ai rimborsi elettorali. Non è nota l’entità della somma della quale Lusi si sarebbe appropriato». Un tesoriere di partito aveva rubato a se stesso. «Il saccheggio politico più grave della storia repubblicana», lo ha definito Arturo Parisi. Lusi fu poi condannato a sette anni per essersi intascato venticinque milioni di euro. Arrivò, qualche settimana dopo, il caso del tesoriere della Lega Francesco Belsito, il cassiere della famiglia Bossi. Ma non ci fu nessuna riforma del sistema. E tra il 2012 e il 2013 il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo che predicava la fine di ogni aiuto di Stato per la politica passò da zero a otto milioni di voti.

 

Un anno dopo, con un decreto, fu abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Il decreto fu emanato dal governo dell’epoca, presieduto da Enrico Letta, oggi segretario del Pd, ma per beffa fu convertito in legge il 21 febbraio 2014, il giorno che il nuovo padrone della politica italiana Matteo Renzi sloggiava Letta da Palazzo Chigi. L’abolizione del finanziamento pubblico era il punto 7 del programma renziano approvato alla stazione Leopolda nel 2011: «Favorire il finanziamento privato sia con il 5 per mille, sia attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità». I nuovi arrivati, Renzi e Grillo, erano uniti nella lotta, contro il finanziamento dei partiti, per rottamare, sbaraccare la vecchia politica. Oggi l’ex premier è sotto inchiesta per i finanziamenti illeciti alla fondazione Open: un’accusa debole sul piano giudiziario, ma dirompente sul piano politico. E il nuovo capo di M5S Giuseppe Conte ricorre al due per mille per finanziare il movimento trasformato in partito.

Gli effetti sul sistema democratico si vedono. Come dimostra l’importante inchiesta dei giornalisti dell’Espresso Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti e Mauro Munafò di questa settimana, la politica non è diventata più trasparente, anzi. È diventata più opaca, più condizionabile, più ricattabile. Il nostro database con i finanziamenti privati ai politici, disponibile sul nostro sito, racconta di questo cambiamento. Un tempo girava la cinica battuta del fondatore dell’Eni Enrico Mattei: «Uso i partiti come un taxi, salgo, pago la corsa e scendo». Oggi i partiti sono come Ncc, macchine prese a noleggio. Partitoidi, più che partiti, simulacri, scatole vuote, imprese quasi individuali. Corti del capo che tiene saldi i cordoni della borsa. Partiti Addams, come li ha rappresentati Ivan Canu in copertina. Mentre chi ha un radicamento territoriale come il Pd è nella situazione denunciata mesi fa dal sindaco di Mantova Mattia Palazzi al convegno delle Autonomie Locali Italiane: «La classe dirigente locale non può partecipare alle decisioni nazionali anche per una questione di finanziamento. Io come sindaco spenderei il mio stipendio solo per venire a Roma».

 

EDITORIOK_cop-espresso50-quadrata

Il risultato è il Parlamento delle anime morte che si prepara a votare per il presidente della Repubblica tra quaranta giorni. Il Parlamento è il cuore della crisi. Di questo raccontano i 113 parlamentari (65 deputati, 48 senatori) iscritti al gruppo misto, oltre il dieci per cento del corpo elettorale chiamato a votare per il nuovo capo dello Stato (i grandi elettori sono 1007): chi sono? Non si sa. Chi li paga, da quali interessi economici sono mossi? Buio assoluto. Di questo parlano le firme per i referendum promossi dai radicali di Marco Cappato (intervistato da Susanna Turco questa settimana): una partecipazione alternativa ai riti del Parlamento inadempiente anche rispetto alle sentenze della Consulta.

 

Tra un anno e più, quando gli italiani torneranno a votare, ci sarà l’ecatombe dei parlamentari uscenti, dopo il taglio che porterà a Camere quasi dimezzate: 400 deputati e 200 senatori. Intanto, si è dimezzata la partecipazione all’impegno sociale, politico, civile, pubblico, come hanno fotografato nei mesi scorsi le ricerche di Demos. E si è dimezzata, soprattutto, la presenza degli italiani alle elezioni: più della metà si sono astenuti alle ultime amministrative.

 

Dieci anni di bombardamento contro la politica, e di incapacità della politica di rinnovarsi, ci consegnano una democrazia senza partiti, di partiti inetti a tracciare un orizzonte di futuro sui diritti sociali, civili, le fragilità dei territori, una richiesta di rappresentanza. Resta il PNRR del governo Draghi, cui è stato assegnato un potere salvifico, l’errore peggiore che si possa fare. E dall’altro la galassia no vax che esprime in Italia come in Europa l’opposizione alle élites e all’establishment (l’inchiesta di Federica Bianchi, Anna Bonalume, Roberto Brunelli, Sabrina Provenzani è questa settimana sull’Espresso).

 

Il cammino da fare, nel tempo che resta, è la riparazione, la rigenerazione del tessuto democratico, che è l’opposto della restaurazione. Una legge elettorale per restituire con i collegi ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti tra i politici di professione di prossimità, conosciuti per il loro lavoro sul territorio, e il potere di indirizzare la maggioranza parlamentare con la scelta di chi governa. Il ritorno di un finanziamento pubblico leggero e controllato, per chiudere con il job on call, il lavoro a chiamata dei precari della politica e rivitalizzare i partiti che o sono strumenti di democrazia o sono macchine privatizzate al servizio di interessi legittimi, ma pur sempre di parte, o illegali. criminali, mafiosi. La possibilità per i cittadini di partecipare alla vita politica con strumenti di democrazia diretta, dai referendum alle leggi di iniziativa popolare, oggi favoriti dal digitale. Sono i punti minimi di un Piano nazionale di ripresa per la democrazia che i partiti dovrebbero impugnare, nel senso opposto a quello che immaginava il capo della P2 Licio Gelli negli anni Settanta.

 

In questo rapporto sullo stato di salute della democrazia non può mancare l’informazione. Ne parliamo con Jill Abramson, che è stata direttrice del New York Times, e che nel suo libro (“Mercanti di verità”, Sellerio) dedica una lunga inchiesta al nostro mestiere, il giornalismo, che resta una professione artigianale, empirica, ma anche civile, intellettuale, essenziale per il funzionamento del sistema di garanzie dei cittadini. Abramson ricorda lo slogan del Washington Post adottato nel 2017, nel pieno dello scontro tra le principali testate americane e Donald Trump: “Democracy Dies in Darkness”. La democrazia muore nell’oscurità. I concorrenti del New York Times ironizzarono: «Sembra il prossimo film di Batman». Ma il direttore del Post Martin Baron ribadì: «Stiamo facendo solo il nostro lavoro. L’interpretazione del Primo Emendamento fornita dalla Corte Suprema ha dato una libertà straordinaria alla stampa americana. E la stampa deve ricambiare la società con il proprio coraggio». Per questo ogni pezzo mancato del nostro mestiere è un frammento di democrazia che va perduto, che entra nell’oscurità.