Contagi in salita, centomila morti, studenti a casa. È cambiato il governo ma non le chiusure. E la politica resta in emergenza

Insicurezza. In copertina c’è la parola del nostro tempo. Della nostra Italia a rischio per l’emergenza Covid-19 (Fabrizio Gatti sull’ultimo numero dell’Espresso), emersa da un anno, con centomila morti, e per il cambiamento climatico che corrode le nostre città (Stefano Liberti).

 

Insicurezza che è anche richiesta di messa-in-sicurezza, protezione sociale, interventi di lungo periodo e non lo stilicidio della paura, delle chiusure e delle riaperture. L’insicurezza va avanti da un anno. Dal primo Dpcm, la conferenza stampa di Giuseppe Conte alle due del mattino, la zona rossa estesa a un’intera regione e a quattordici province. Il silenzio delle strade la domenica mattina, i soldati a presidiare le stazioni, le piazze vuote, il coprifuoco.

 

Un anno fa, nella notte tra il 7 e l’8 marzo 2020, l’Italia scoprì la chiusura, sperimentò il lockdown: nel giro di poche ore, e di pochi giorni, prima la Lombardia e poi l’intero territorio nazionale. Fu il primo paese europeo e occidentale a farlo, consegnando al mondo l’immagine di uno Stato democratico che decide di chiudere l’accesso a scuole, università, negozi, attività produttive, palestre, piscine, teatri, cinema, chiese e altri edifici di culto, e di limitare o bloccare del tutto la circolazione dei cittadini. Gli altri paesi europei arrivarono dopo, gli Stati Uniti ancora più tardi. Era la prima volta e furono giornate drammatiche, segnate dalle fughe dalle zone rosse verso le regioni del Sud e dalle violente e oggi dimenticate rivolte nelle carceri, con un bilancio di dodici vittime tra i detenuti (nove a Modena), e evasioni, saccheggi, il penitenziario milanese San Vittore in fiamme.


Il nuovo decreto della presidenza del Consiglio, il primo del governo presieduto da Mario Draghi, arriva esattamente un anno dopo. Impossibile non provare il deja-vu. Nuove zone rosse si annunciano, si teme un nuovo lockdown, la stessa escalation del marzo 2020, in un paese diviso tra qualche segno di reazione e un sentimento diffuso di disagio e di frustrazione.

 

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Ci sono attività produttive che non si sono mai fermate e che hanno guadagnato in questi dodici mesi di Covid-19: la grande distribuzione alimentare, in particolare, le aziende farmaceutiche, il distretto del biomedicale a Mirandola, ma anche il settore della meccanica in Lombardia e in Emilia Romagna. Sono le zone più colpite dalle prime chiusure di questa terza ondata, in attesa del lockdown prossimo venturo. E ci sono, al contrario, le fratture invisibili della società che non conoscono riprese e ristori. Sono le famiglie e le donne su cui grava l’assistenza, la cura dei bambini senza scuola. Sono i giovani che pagano il prezzo più alto, con l’anno scolastico devastato e la socializzazione spezzata, come un anno fa. Tre alunni su quattro finiranno nella didattica a distanza, secondo le stime della rivista Tuttoscuola. Sono senza un sindacato che li tuteli, un presidente di regione che li rappresenti, un partito che se ne faccia carico. Di fronte alla terza ondata della pandemia, la più imprevedibile sul piano sanitario con le varianti del virus che si moltiplicano più rapide delle campagne di vaccinazione, come in un maledetto videogame, c’è la stanchezza dei dodici mesi più duri alle spalle e c’è diffidenza verso le promesse future.


La novità più importante è arrivata dalla politica, con il governo di unità nazionale e le prime mosse del nuovo premier. Cambiare gli uomini della squadra, riportare in prima linea le strutture che erano entrate in sofferenza un anno fa e poi messe in seconda fila dietro la figura del commissario Domenico Arcuri. La protezione civile, tornata sotto la guida dell’esperto Fabrizio Curcio, l’esercito con la nomina del generale Francesco Paolo Figliuolo al posto di Arcuri, la supervisione del sottosegretario alla sicurezza Franco Gabrielli che sul piano formale ha la delega al controllo dei servizi segreti ma che sul piano sostanziale è il motore di questa cabina di regia.


Torna lo Stato, con le sue istituzioni, i suoi uomini. Lo Stato entrato in agitazione un anno fa, all’inizio della guerra della pandemia. Mentre sul sistema sanitario nazionale gravava tutto il peso della risposta all’attacco del virus, con la retorica insopportabile sui medici e gli infermieri eroi, il resto dell’apparato pubblico si fece cogliere tragicamente impreparato: la sicurezza, la pubblica amministrazione, la scuola, la macchina della giustizia, fino a risalire la scala e arrivare ai vertici delle istituzioni, i comuni, le regioni, il Parlamento e il governo. È rimasta illesa la presidenza della Repubblica, il motore di riserva che si accende quando tutto il resto sembra precipitare.


Oggi combattere il virus significa ripristinare l’efficienza degli apparati ma anche la normalità del funzionamento delle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione. Non c’è bisogno che l’ordine regni a Varsavia, ma che almeno gli interventi siano ordinati e non scomposti.


A gestire il recupero è stato chiamato un presidente del Consiglio che dell’emergenza è espressione, dopo una crisi politica che stava per provocare l’infarto del sistema. Draghi sa di avere a disposizione un orizzonte di tempo limitato. Si gioca tutto in uno spazio breve: il mese del nuovo Dpcm, dal 6 marzo al 6 aprile, è anche il periodo in cui la campagna delle vaccinazioni deve decollare, dopo il bilancio modesto di gennaio e febbraio.


Nello stesso periodo, bisogna lavorare alla missione che vale un governo, la stesura definitiva del Recovery Plan, il Pnrr (Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza) e la sua presentazione alla Commissione europea entro il 30 aprile. Sono otto settimane per correggere, se non riscrivere, il progetto del governo precedente. Anche in questo caso la governance straordinaria che avrebbe dovuto occuparsi del Piano, la piramide di Giuseppe Conte con l’aggiunta di sei supermanager e un esercito di tecnici, mai entrata in ruolo, è stata superata con una scelta lineare: se ne occupa il ministero dell’Economia con gli altri ministeri competenti, a partire da quelli per la Transizione ecologica, l’Innovazione, le mobilità sostenibili. Anche in questo caso tornano le vecchie istituzioni, tocca a loro disegnare il volto dell’Italia dei prossimi dieci anni. Sono ciò che tiene, mentre tutto sembra incerto.

Manca la politica che si regge su una organizzazione di partito e su una visione del mondo, un tempo lontano si sarebbe detto ideologia. I partiti e le leadership sono sopravvissute a se stesse in questa folle legislatura, ma il governo Draghi è l’ultimo bivio, oltre il quale c’è la dissoluzione. E infatti arrivano le onde d’urto. La Lega di Matteo Salvini ha fatto una specie di congresso sotterraneo, il Capitano è finito in minoranza ma i vincitori (Giancarlo Giorgetti, Luca Zaia) gli hanno permesso di restare in carica a patto di interpretare la linea vincente e lui si è acconciato a farlo, nel tentativo di trasformare il governo Draghi nel laboratorio politico del nuovo centro-destra: un patto tra i sovranisti depurati del populismo anti-euro e anti-establishment, a quel punto presentabili nel salotto buono, e i moderati centristi finiti in minoranza elettorale. Il patto era già pronto nel 2019, fu Salvini a mandarlo all’aria con l’incontro dell’hotel Metropol a Mosca del suo faccendiere Gianluca Savoini con gli uomini di Putin, la scelta rovinosa di votare contro Ursula von der Leyen mettendosi all’opposizione in Europa, la crisi aperta sulla spiaggia accaldata del Papeete. Il leader della Lega non ripeterà l’errore catastrofico e approfitterà di questo tempo per rendersi spendibile nella buona società.


Sul versante opposto (ma per quanto tempo?), gli ex alleati del Movimento 5 Stelle si frantumano e provano ad affidarsi alla leadership di Conte, forse con un nuovo simbolo. I sondaggi che premiano questa operazione sono una sconfitta per chi nel Pd ha considerato l’ex premier il federatore del nuovo centro-sinistra: una prospettiva talmente generica e inesistente che Conte ha preferito buttarsi su un partito che c’è e che strapperà molti voti ai democratici. Il Pd di Nicola Zingaretti è immerso in un lungo congresso, lasciando insoluta l’eterna questione della sua identità: chi sei? Chi vuoi rappresentare? In quale sistema politico immagini la tua azione? Infine, c’è il drappello che finisce a pezzetti: gli ex Pd con Roberto Speranza, gli ex Rifondazione con Nicola Fratoianni, i verdi che verranno con Rossella Muroni.


Mentre a destra Matteo uno (Salvini) costruisce il nuovo centro-destra, con il possibile approdo del Matteo due (Renzi), nel Pd c’è una intera strategia da ricostruire. Passa per una riscrittura delle regole che difendano un assetto bipolare, altro che legge elettorale proporzionale, e per una ricostruzione della propria identità e del proprio radicamento sociale. Altrimenti, a furia di voler evitare un destino di irrilevanza, si scivola nell’esito del partito socialista francese che è finito per rilevare nulla nell’elettorato oppure, nella migliore delle ipotesi, nel ruolo della socialdemocrazia tedesca, costretta a decenni di grande coalizione con Angela Merkel, ma da alleato minore e secondario.

 

A dispetto di una forza sociale che esiste, ma che è mortificata dalle correnti romanocentriche del partito, da un elettorato sconfortato ma resistente, da una classe dirigente diffusa nei territori ma stretta dai caminetti dei capi che si spartiscono ministeri e sottosegretariati. Nel 2014 la vittoria di Renzi alle elezioni europee fece illudere che il Pd del 40 per cento potesse trasformarsi nel partito della Nazione: ma era un numero, senza anima e senza orizzonte, e svanita la percentuale gonfiata dalle speranze suscitate in quel momento dall’ex sindaco di Firenze è venuto giù anche quel progetto politico. Resta in piedi, invece, l’ambizione di affiancare al governo del Paese (Draghi) un partito che si faccia carico del Paese a partire da una visione del mondo alternativa alla destra in tutti i suoi volti e le sue numerose metamorfosi, che sia sovranista, moderata o liberale. Che, per storia, è il pensiero democratico. Riformista e di sinistra. L’insicurezza è il suo nemico. La messa in sicurezza, ovvero la risposta alla domanda di uguaglianza, di giustizia sociale, di rispetto per l’ambiente, di parità tra le persone senza differenze di genere, ancora più urgente in questo 8 marzo 2021, è la sua ragione sociale, la sua missione di vita.

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