Editoriale
Il lavoro e la società, le idee e la cultura: sono due lati del triangolo che fa la politica. Ma alla sinistra è rimasto solo il terzo: le reti di potere. Per questo ora bisogna cambiare
di Marco Damilano
Le buone notizie dal fronte Covid-19, nonostante la «confusione» sui vaccini (per ben quattro volte Mario Draghi ha ripetuto questa parola nella insolita conferenza stampa della scorsa settimana durata dodici minuti, con il premier costretto a dirigere di persona il traffico delle domande: «solo una, per favore»), consentono non soltanto la riapertura di ristoranti, stabilimenti balneari, locali notturni, teatri, cinema, festival, eventi, ma anche la ripresa dello scontro sociale scaldato a fuoco basso nei lunghi mesi del lockdown. Su due dei tre lati che compongono il triangolo politico. Per molti il primo, anzi, l’unico, è il potere, certo, ma prima di tutto vengono il materiale e l’immateriale: le condizioni concrete delle persone e il dibattito delle idee.
Delle condizioni materiali parla l’ultimo rapporto Istat: nel 2020 la povertà assoluta ha raggiunto il livello più elevato dal 2005: si trovano in questa situazione poco più di due milioni di famiglie (7,7 per cento del totale) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4 per cento). Con alcune novità allarmanti: oltre 2,5 milioni di poveri assoluti abitano nelle regioni del Nord produttivo (il 45,6 per cento) e la povertà è più elevata tra i giovani tra i 18 e 34 anni, mentre è inferiore alla media nazionale per gli over 65. Sono numeri che parlano di un ascensore sociale inceppato, la pandemia ha contribuito a bloccarlo quasi del tutto.
Siamo alla vigilia del primo luglio, il giorno in cui finisce il divieto di licenziare, dopo un anno e quattro mesi. Le stime catastrofiche di Banca d’Italia di qualche settimana fa, oltre mezzo milione di posti di lavoro a rischio, sono state fortemente ridimensionate da altre proiezioni. Il report sul decreto Sostegni dell’Ufficio parlamentare del Bilancio prevede 70mila posti di lavoro persi e concentrati nell’industria, aggiungendo che la fine del blocco favorirà la ricerca di occupazione dei giovani.
Alcuni settori sono più in sofferenza di altri: nel comparto tessile-moda (57mila imprese, 471mila occupati, cui vanno aggiunti quelli della filiera abbigliamento-calzature), la crisi ha colpito almeno un terzo delle imprese, con la messa a rischio di 150mila posti, in gran parte occupati da donne. I sindacati, tornati in piazza per la prima volta il 26 giugno, lanciano l’allarme sulla tensione in arrivo, ma il mondo del lavoro da tempo non ha una rappresentanza politica. E la sua frammentazione, tra opportunità e nuove forme di sfruttamento, parla di un Paese in cui la lotta è affidata alle capacità individuali, di adattamento, di resistenza, di sopravvivenza, e non di difesa di un valore come la coesione sociale, sottolineato da Draghi come a rischio anche nel suo ultimo intervento parlamentare (23 giugno) prima del Consiglio europeo ma sacrificato da decenni sull’altare del profitto.
Come ha scritto Michael Sandel in “La tirannia del merito” (Feltrinelli, 2021), «la convinzione meritocratica che le persone meritino qualsiasi ricchezza il mercato conferisca ai loro talenti rende la solidarietà un progetto quasi impossibile... se la democrazia è semplicemente un’economia con altri mezzi, una questione del sommare i nostri interessi e le nostre preferenze individuali, allora il suo destino non dipende dai legami morali dei cittadini. Ma la democrazia richiede il bene comune, spazi e luoghi in cui si incontrino cittadini di diverse estrazioni sociali, una più generosa vita pubblica».
L’opposto dell’anonimato e della solitudine in cui si trovano a vivere, lavorare e lottare tanti giovani italiani e cittadini immigrati senza diritti, come quelli che difendeva Adil Belakhdim, il sindacalista travolto e ucciso da un camionista durante una manifestazione, o i lavoratori del green vantato come la magnifica sorte e progressiva, per di più nel civilissimo Trentino, raccontati da Tommaso Giagni, uno dei migliori scrittori e indagatori del presente della sua generazione, e dalle foto di Alessandro Penso nella storia di copertina dell’Espresso di questa settimana.
Tra i lavoratori dimenticati ci sono gli operatori della cultura che tengono in piedi l’ossatura culturale del Paese. Il caso di Antonio Scurati, che non ha accettato un veto sulla presenza di Roberto Saviano e ha mollato la presidenza della fondazione Ravello, ha rilanciato il dibattito sulla libertà degli intellettuali rispetto alle pretese dei politici di farsi i cartelloni su misura, ma ha oscurato un altro punto: la presenza in Italia di centinaia di professionisti (autonomi, partite iva, non star dai nomi altisonanti) che ogni anno, soprattutto in estate, organizzano manifestazioni, festival, rassegne, eventi, elaborano palinsesti, portano in città e centri fuori dalle solite rotte autori e ospiti internazionali. Il ministro Dario Franceschini che si inorgoglisce per il rilancio di Pompei o per Cinecittà dovrebbe guardare anche a loro, riconoscere la dignità di un mestiere che accanto a tanti altri è un presidio sociale.
Il secondo lato è quello immateriale, il dibattito delle idee. L’azione del Vaticano, la nota verbale con cui la Segreteria di Stato ha auspicato da parte dello Stato italiano una «rimodulazione» del disegno di legge Zan che potrebbe ridurre «la libertà garantita alla Chiesa cattolica» dal Concordato, fa fare alla politica ecclesiastica un salto all’indietro di decenni. Dobbiamo tornare agli anni Cinquanta del Novecento, ai giorni dell’onnipotenza, come li definì Mario Vittorio Rossi, ex presidente dei giovani di Azione cattolica, quando la Chiesa controllava tutto, al don Lorenzo Milani di “Esperienze pastorali”: «Essere liberi, avere in mano sacramenti, Camera (dei deputati), Senato, radio, campanili, pulpiti, scuola, e con tutta questa dovizia di mezzi e di uomini raccogliere il bel fatto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Avere la chiesa vuota, vedersela vuotare ogni giorno di più, saper che presto sarà finita con la fede dei poveri».
Quel libro, l’unico davvero firmato dal prete di Barbiana, fu pubblicato nel 1958 e subito ritirato per volere dell’allora Sant’Uffizio, ma era profetico.
Più di sessant’anni dopo siamo in una situazione totalmente diversa. La Chiesa oggi non è più tutto, ma per difendere i suoi spazi utilizza ogni arma a sua disposizione, compresa la pressione diplomatica sul governo di Mario Draghi, allievo dei gesuiti, nominato nella Pontifica accademia delle scienze sociali da papa Francesco, il gesuita Bergoglio. Il ricorso al Concordato, simbolo dell’alleanza trono-altare di epoche passate, è la sconfitta più cocente del disegno riformista del papa argentino, sempre più incerto e contestato.
In un’epoca in cui i troni del potere politico vacillano, gli altari sono disertati, e il gregge è smarrito, come si intitola la ricerca curata dall’associazione Essere Qui presieduta da Giuseppe De Rita, con Liliana Cavani, Romano Prodi, Ferruccio De Bortoli: la Chiesa è in declino, irrilevante e ininfluente per la stragrande maggioranza degli intervistati e per il 65 per cento di coloro che si definiscono praticanti. Il paradosso è che i cattolici perdono di senso se rinunciano a una visione politica del mondo: «La sola tendenza culturale o spirituale tende a evaporare senza un impegno sociopolitico». Ma questo è l’opposto di contrastare una legge che non piace con il Concordato e non con la forza delle idee, l’unica consentita nel gioco democratico.
Una situazione che gli Stati Uniti conoscono bene. George Packer ha appena pubblicato “Last Best Hope: America in Crisis and Renewal” (Farrar, Straus and Giroux, 2021), di cui si trova in rete un lungo estratto di The Atlantic, in cui parla della frattura degli Usa in quattro parti: la Free America della libertà sopra ogni cosa, post-reaganiana, la Real America della provincia profonda attratta da Donald Trump, la Smart America clintoniana e obamiama, ottimista e attratta dalla religione del merito, la Just America, dove contano i simboli, i linguaggi, l’identità. Ognuna di queste narrazioni sono in una competizione che genera ansietà e risentimento reciproco. È la situazione in cui è partita la presidenza di Joe Biden.
L’Italia non è lontana dall’America. La divisione tra la sinistra Smart, perfettamente integrata nel mondo nuovo della globalizzazione, entusiasta di ogni cambiamento, e la massa dei nuovi esclusi, più ancora su un piano psicologico che economico e sociale, ha creato nel primo ventennio del Duemila l’ascesa del Movimento 5 Stelle e poi i sovranismi di Lega e di Fratelli d’Italia. Un solco profondo che ha messo le sinistre di ogni colore, democratiche, riformiste, radicali, fuori sia dal gioco materiale, perché si è smarrita la rappresentanza degli interessi concreti affidata a un pugno di coraggiosi ma isolati amministratori locali, sia dal gioco immateriale: il sistema dei valori, il pensiero, la cultura politica che è l’anima di un partito. Come dimostra anche la timidezza nell’affrontare la tragica vicenda di Saman Abbas, la ragazza pakistana scomparsa a Novellara.
È rimasto il terzo lato del triangolo: la rete di rapporti e relazioni di vertice, la presenza istituzionale, la permanenza al potere che ha permesso al Pd di restare al governo per più di dieci anni su venti senza mai vincere le elezioni e senza mai entrare con personalità nel dibattito sulla crisi e sulla ripresa italiana.
Oggi c’è la possibilità di una rigenerazione, offerta dal post-pandemia e dal movimento di tutte le forze in campo. A destra, ha ragione Giovanni Orsina (La Stampa, 23 giugno), più che un partito unico servirebbe una fondazione culturale unica, un centro di pensiero. Ma la Free Italia e la Real Italia hanno i loro punti di riferimento. Tra loro, la Lega che per cercare finanziamenti si è seduta al tavolo con una spia di Putin, apprendiamo ora, ma l’Espresso rivelò l’incontro di Mosca già due anni fa. Nel Movimento 5 Stelle si è aperto lo scontro finale tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, che sembrano oggi due creature virtuali, anche nel campo degli ex paladini dell’anti-politica resta la gestione felpata e compiaciuta del potere in mano al ministro di ogni stagione Luigi Di Maio, diventato l’idolo degli andreottiani vecchi e nuovi per la sua capacità di adattamento a ogni mutazione.
Il Pd di Enrico Letta è alla vigilia delle sue agorà, l’iniziativa su cui il segretario investe la sua leadership. In fondo a questo lavoro c’è una nuova tavola dei valori, l’abbandono della felicità Smart stile anni Novanta-Duemila e poi vicinanza, combattimento, professionalità della politica nel tenere insieme il Paese che altrimenti si disgrega.
Perché, come avvisa George Packer, la Just America facilmente si può capovolgere nel suo opposto, l’Unjust America, la giustizia può rovesciarsi nell’ingiustizia della guerra di tutti contro tutti, ogni minoranza contro l’altra, senza possibilità di un terreno comune, esattamente quello che si augurano le destre di ogni latitudine. Il lavoro è più vasto di un sussulto alle primarie o di elezioni amministrative che sono in ogni caso da vincere. Alla fine c’è un nuovo congresso per un nuovo partito, con una classe dirigente diversa da quella estenuata di oggi, da cercare alla frontiera dei due lati del materiale e dell’immateriale, sui territori e tra i portatori di idee, fuori dal terzo lato del potere, sempre più residuale. Letta non può affermare questo obiettivo al punto di partenza. Ma non immaginarlo come punto di arrivo sarebbe letale. Basta con lo Smart Pd, che di smart ha soprattutto i consensi.