L’aggressione di Vladimir Putin fa tramontare l’idea di un mondo pacificato dal mercato. E condiziona l’Europa in bilico tra sovranismi e democrazia

In Occidente, in Europa, sul fronte orientale dell’Ucraina e delle repubbliche separatiste del Donbass Donetsk e Luhansk, le piccole nazioni del nostro tempo, si scontrano non solo la Russia di Vladimir Putin e la Nato sopravvissuta alla guerra fredda e alla «morte cerebrale» di cui parlò il presidente francese Emmanuel Macron nel 2019. Il conflitto arriva da prima, dal 1991, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, o forse dal 1989. O ancora da più lontano. Ci sono le frontiere, i nazionalismi, lo spostamento di truppe, le leggi del sangue e del suolo che la caduta del muro di Berlino e la globalizzazione di inizio millennio sembravano aver cancellato. Il trionfo della democrazia sotto specie di economia di mercato: perenne, permanente, cristallizzata. Un’illusione smentita nella polvere delle Twin Towers dal terrorismo islamico, con la sua ideologia totalitaria e nichilista. Ma cancellata già prima in Europa, a pochi chilometri dall’Italia.

 

Il 7 febbraio 1992 fu firmato il trattato dell’Unione economica e monetaria, in una località olandese fino a quel momento poco conosciuta. «Ogni tanto un oratore pronuncia quel nome strano, invocando l’unione dell’Europa senza ulteriori ragguagli. Se qualcuno consulta l’annuario più aggiornato, raccoglie informazioni elementari: “Maastricht. Città dei Paesi Bassi, 115.272 abitanti, sulla Mosa, capitale del Limburgo. Metallurgia, chimica, porcellane, vetro. Chiesa di S. Servazio, secolo XI”. Gli oratori evitano di turbare o annoiare l’uditorio illustrando le regole stabilite a Maastricht, pochi mesi fa, per l’ingresso nella comunità monetaria europea...», scriveva in quei giorni Alberto Ronchey su Repubblica (26 marzo 1992). Per l’Italia che «vive al di sopra dei propri mezzi e che dovrebbe ridurre il disavanzo di bilancio annuale dal 10 al 3 per cento del prodotto interno lordo e il debito pubblico da oltre il 100 per cento al 60 in cinque anni» la firma di quel trattato segnò la fine della Prima Repubblica, ben più delle inchieste di Mani Pulite, iniziate negli stessi giorni: il venir meno della spesa pubblica e della svalutazione della lira come leve del consenso. Ma assomigliava al futuro: la moneta unica nell’Europa senza più guerre.

 

Invece, il futuro assomigliava al passato. Negli stessi giorni del 1992 il Novecento europeo si chiuse laddove era cominciato, nel luogo da cui era partita la tragedia del primo conflitto mondiale. Il primo marzo 1992 partì l’assedio di Sarajevo, lo racconta Gigi Riva sull’Espresso questa settimana, che visse da straordinario cronista quelle ore di disperazione e raccolse in conferenza stampa lo sconforto del presidente bosniaco Alija Izetbegović. Sarajevo, la città dove perfino gli orologi nella notte non battono le stesse ore, come scriveva Ivo Andrić: «Chi passa la notte sveglio a Sarajevo può udire le voci della sua oscurità. Pesantemente e inesorabilmente batte l’ora sulla cattedrale cattolica: due dopo la mezzanotte. Passa più di un minuto - esattamente, ho contato, 75 secondi - e solo allora si annuncia con un suono più debole, ma acuto, l’orologio della chiesa ortodossa che batte anch’esso le “sue” due ore. Poco dopo si avverte con un suono rauco e lontano la torre dell’orologio della Moschea del Bey, che batte le undici, undici ore degli spiriti turchi, in base a uno strano calcolo di mondi lontani e stranieri. Gli ebrei non hanno un loro orologio che batte le ore... il loro Dio è l’unico a sapere che ore sono in quel momento da loro...».

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La città divisa, nella Bosnia, «il paese della paura e dell’odio», consegnata alla necessità della convivenza tra i popoli e i loro credi politici e le loro fedi religiose, o alla loro distruzione. Le radici della storia si risvegliavano e smentivano drammaticamente i parametri economici con cui le classi dirigenti dell’epoca immaginavano di averle recise. Sarajevo cancellava Maastricht dalle cronache con i fantasmi del passato: la guerra combattuta a colpi di mortaio, l’assedio medievale, la fame, i poveri corpi smembrati, la pulizia etnica.

 

Trent’anni dopo Putin ha giustificato l’intervento in territorio ucraino richiamando lo spirito imperiale della Russia. Bisogna ripercorrere a ritroso il fiume dei millenni, come fa Wlodek Goldkorn, la Nazione Impero, i miti fondativi. Nella sfida all’Occidente ritornano le due dimensioni costitutive che la globalizzazione virtuale presumeva di aver superato. Lo spazio, con le frontiere presidiate, militarizzate, attaccate o difese, conquistate palmo a palmo, con gli stivali sul terreno. E il tempo, con le rivendicazioni secolari richiamate dalla propaganda putiniana per giustificare lo sferragliare dei mezzi corazzati verso i territori ucraini che per Putin fanno parte della Russia da sempre. «La nostra unità spirituale cominciò con il battesimo della Santa Rus’ 1025 anni fa. Da allora sono accadute molte cose nella vita dei nostri popoli, ma la nostra unità spirituale è così salda da non risentire di alcuna iniziativa da parte di alcuna autorità. Infatti, qualunque autorità guidi il popolo, nessuna può essere più forte di quella del Signore. Nulla può esserlo», disse nel luglio del 2013 celebrando a Kiev la ricorrenza del battesimo di Vladimir I, principe e santo della Chiesa cattolica e ortodossa. Un mito conteso, tra i nazionalisti russi e i nazionalisti ucraini. «Nei mille anni trascorsi dal battesimo di Volodomir/Valdmarr I di Kiev è possibile vedere una storia, anziché un racconto di eternità. Ragionare storicamente non significa barattare un mito nazionale con un altro, dire che l’erede della Rus’ è l’Ucraina invece della Russia, che Volodomir/Valdmarr era ucraino e non russo. Fare una simile affermazione equivale soltanto a sostituire una politica russa dell’eternità con una politica ucraina dell’eternità. Ragionare storicamente significa scorgere i limiti delle strutture, gli spazi di indeterminatezza, le possibilità di libertà», ha scritto lo storico Timothy Snyder in “La paura e la ragione” (Rizzoli, 2018).

 

È questo il vero scontro, dunque. Tra il tempo nuovo, il XXI secolo deterritorializzato e privo di passato, e l’eternità di chi considera la storia un campo senza movimento e senza cambiamento. In cui restano schiacciate «le possibilità di libertà» che sono il campo largo della politica. Negli ultimi decenni la politica è stata ridotta ad ancella dell’economia liberista, con l’intangibilità dei suoi parametri e dei dogmi, o è stata colonizzata dal nazionalismi di ritorno di stampo ottocentesco, con relativi, pesanti armamentari ideologici. In entrambi i casi a uscire sconfitta è la possibilità del cambiamento, perché le due visioni del mondo, opposte in tutto, sono unite nell’immaginare l’essere umano come immutabile e nel considerare la storia come un eterno presente senza evoluzione. Per questo, in entrambi i casi, la democrazia è una pietra di inciampo. Perché la democrazia è tensione, non appagamento, non è una meta raggiunta una volta per sempre, ma è un cammino continuo nella storia, con le sue cadute, le tentazioni di tornare indietro, i tradimenti, le svolte, le grandezze.

 

La visione putiniana della storia ha condizionato i sovranismi degli ultimi anni in Europa occidentale, tutti a caccia di un mito fondativo. All’ampolla del dio Po della Lega Nord di Umberto Bossi, tipico dell’avventura secessionista di stampo balcanico in cui potevamo precipitare negli anni Novanta delle guerre nella ex Jugoslavia alle porte di casa, Matteo Salvini ha sostituito il rosario brandito in piazza, nei comizi, e perfino nell’aula del Senato. Nelle sue mani, uno strumento identitario, divisivo, pagano, arcaico, mai un esponente democristiano si sarebbe sognato di sventolarlo in un incontro politico, a testimoniare la diretta discendenza di Salvini e della sua Lega dalle sacre radici cristiane.

 

Sulla politica dell’eternità, e su ben più concrete trattative, il Capitano della Lega ha incontrato la cerchia di Putin fin dall’inizio della sua leadership. Nel 2013, al congresso che lo elesse segretario, c’era l’oligarca russo Konstantin Malofeev, sostenitore del movimento Novorossija, la Nuova Russia, con cui forniva sostegno ai separatisti russi in Ucraina Orientale. Nell’ottobre 2018 Salvini volò a Mosca, per un convegno di Confindustria Russa, e si lanciò in affermazioni che oggi suonano temerarie: «Io qui a Mosca mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no. Più europea della Federazione russa ce ne sono poche in questo mondo».

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Era vicepremier e ministro dell’Interno del governo di Giuseppe Conte, a fianco del collega Luigi Di Maio, che oggi da ministro degli Esteri ripete a ogni passo la sua fedeltà atlantica. Il giorno dopo quell’incontro, l’uomo di fiducia della Lega Gianluca Savoini, presidente dell’associazione Lombardia-Russia, incontrò a un tavolo dell’hotel Metropol tre esponenti del mondo putiniano per trattare un appoggio economico in vista delle elezioni europee del 2019, con un curioso preambolo politico: «La nuova Italia costruirà la nuova Europa a fianco della Russia» insieme a Marine Le Pen, Viktor Orban e Jaroslaw Kaczynski. I lettori dell’Espresso conoscono bene questa storia, perché fu il nostro settimanale a rivelarla, esattamente tre anni fa (Espresso n.9, 24 febbraio 2019). E quelle rivelazioni furono determinanti per segnare la fine del governo Conte uno e l’autoesclusione della Lega dalla maggioranza che nel luglio 2019 nel Parlamento europeo elesse presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. La maggioranza Ursula, con il Pd e Forza Italia e il Movimento 5 Stelle ma senza la Lega, che spesso viene evocata come possibile maggioranza politica per la prossima legislatura.

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Era il Salvini sovranista raccontato da Anna Bonalume, collaboratrice dell’Espresso, al pubblico francese (“Un mois avec un populiste”, Pauvert). Oggi il capo della Lega è molto più prudente. E la prudenza segna i passi del governo Draghi in questa crisi internazionale. Ma il virus del sovranismo ha avvelenato le democrazie europee ben prima che arrivasse la pandemia del covid a sconvolgere i progetti e le ambizioni.

 

Ora parlano le armi ed è un’altra sconfitta della politica. Le leadership europee sono considerate deboli e inerti dalla propaganda dei falchi atlantici, speculare a quella del presidente russo, demonizzato dall’Occidente adesso almeno quanto blandito in passato, quando faceva imprigionare i dissidenti politici e tollerava gli omicidi degli oppositori e dei giornalisti. Ma quelle leadership europee non sono deboli per caso, dopo decenni di spinte alla rottura apprezzate da Washington (la Brexit del 2016) o fomentate da Mosca. Eppure, l’Europa debole e divisa resta il punto da cui ripartire, per tenere insieme la fermezza contro tutte le autocrazie e la resistenza all’esibizione muscolare delle armi, la ricerca del dialogo e della diplomazia, nonostante tutto. Come ha sempre ricordato David Sassoli, l’entità che chiamiamo Europa è lo spazio della politica e della democrazia. Sarà per questo, infatti, che ancora non c’è.