Dopo anni di lotte tra azionisti, con la scelta sullo scorporo della fibra ottica e la vendita a KKr si gioca il destino di un'infrastruttura decisiva e strategica per il Paese. Per il cda dell'azienda di telecomunicazioni è l'ora della verità

La vicenda Rete unica di Tim (ossia lo scorporo della rete in fibra ottica e la sua vendita al fondo Kkr) sta arrivando a un momento cruciale. Ora, come in tutti i momenti importanti, ci vuole il coraggio di decidere. Questo fine settimana lo sapremo. Per venerdì 3 novembre è convocato il cda di Tim per prendere visione dell’offerta. Sabato 4 novembre sarà dedicato alla fase di “induction” ossia una seduta informale, sempre del cda, dove gli advisor forniranno tutte le spiegazioni e illustreranno i dettagli. Poi domenica 5 il dentro o fuori. Ne sono convinti anche i sindacati: Cisl e Cgil hanno esortato l’azienda a fare una scelta.

 

Dopo un quarto di secolo, tristemente perso fra “la madre di tutte le privatizzazioni”, il nocciolino duro, i capitani coraggiosi, due opa a debito e una presunta opa di Kkr, passaggi di mano di quote di controllo, Olimpia, Telco, piani e contropiani, per quello che una volta era il sesto operatore al mondo, è il momento della resa dei conti. È una questione fondamentale, dov’è in gioco il futuro di un’infrastruttura tecnologica decisiva per il futuro del sistema-Paese.

Tim ha messo in campo un piano, approvato all’unanimità dal cda, che all’epoca vedeva ancora come membri due esponenti di primo piano di Vivendi, principale azionista con il 24% del capitale, l’ad Arnaud de Puyfontaine e il top manager Frank Cadoret: scorporare la rete, smettere di essere un operatore verticalmente integrato, rinunciare a un pezzo pregiato per rilanciarsi all’attacco di un mercato complicato come quello delle Tlc. In una partita a scacchi, sarebbe un sacrificio di regina: una mossa coraggiosa per chiudere la partita. Da troppo tempo Tim gioca contro un debito (arrivato a 30 miliardi) che ne frena la libertà di manovra e fa apparire quello che è un grande gruppo tecnologico come un gigante impacciato.

 

Se il piano andrà avanti, la rete Tim verrà scorporata e in seguito messa assieme a quella di Open Fiber. Tim si dividerà sostanzialmente in due: da una parte, la Netco (la compagnia della rete) destinata a diventare profittevole per l’obbligatorietà di usarla per chiunque in Italia voglia fare traffico dati e per le tariffe che incasserà, soggette alla rivalutazione dell’inflazione. L’altra parte diventerà la Serco, ossia la compagnia dei servizi, più sottoposta ai venti e alle maree del mercato ma comunque più leggera nell’indebitamento e nei costi.

 

Uno dei temi del contendere è proprio nella divisione dei dipendenti e dei debiti: quanti andranno nella Netco e quanti nella Serco? L’altro tema, più sottile ma fondamentale, è in punta di diritto: per una decisione come quella dello scorporo di un asset così importante, può bastare una riunione del cda oppure occorre un’assemblea straordinaria come chiede il principale socio Vivendi? I francesi non ci stanno, vogliono più soldi dei 21 miliardi proposti dalla cordata Kkr.

 

In meno di dieci anni, il tempo in cui sono stati loro a dare le carte, cambiando strategia e ad con una frequenza inusitata, hanno accumulato circa 3 miliardi di minusvalenze. Ancora adesso, mentre bussa alle porte di possibili cavalieri bianchi, Vivendi prova a rovesciare il tavolo, chiedendo di fatto che gli sia riconosciuto il potere di veto e irritando così il governo, che ha varato due decreti ad hoc per Tim e prenotato 2,5 miliardi di investimenti da mettere al fianco del fondo americano Kkr per costruire la rete in fibra, considerata strategica da tutti gli esecutivi che hanno avuto il dossier Tim sul tavolo. I tormenti di Tim sembrano non finire mai. Ma se i cda di questo fine settimana daranno una risposta coraggiosa, si potrà almeno cominciare a scrivere una storia nuova.