C'è la guerra con le sue vittime investite dalle schegge di una bomba, falciate da una granata, travolte da un tank. I morti entrano nelle statistiche e i feriti invece vengono rimossi, cancellati, cadono nell’oblio. Offesi due volte, nei corpi e nella memoria collettiva. Le loro ferite, in apparenza rimarginate, diventano un affare di famiglia. Si riacutizzano nel tempo e dispiegano i loro effetti anche a distanza di decenni.
In un tempo come il nostro, segnato dai conflitti, suona familiare il nucleo da cui è partito Federico Pace per costruire il bel libro “Ogni cosa aveva un colore” (Einaudi, pp. 208; € 15,50). Un viaggio di scoperta e formazione, in bilico tra memoir e romanzo, alla ricerca del padre appena perduto e dell’evento che ne ha segnato il destino. «Anche se di mio padre so molto, c’è una cosa, forse la più importante di tutte, di cui non mi ha mai parlato. Qualcosa che, in un tempo distante, ha ferito e mutato per sempre la sua esistenza», afferma Pace, che mentre infuria la guerra in Ucraina comincia il suo percorso introspettivo. Torna sul luogo del delitto, se così si può dire: l’esplosione della mina che a cinque anni privò il padre della vista. Cambiando la sua vita per sempre. Va dove ha abitato suo padre, visita i posti che ha frequentato, contatta i suoi amici. Ne ripercorre la vita. Dai primi anni vissuti in un paesino dell’Agro Pontino al rapporto speciale con lo zio Manlio. Dagli anni all’Istituto Romagnoli per ciechi al riscatto di un uomo che si è conquistato un futuro laureandosi, innamorandosi, sposandosi.
Si muove con il piglio di un investigatore Pace, con una scrittura struggente ma lontana dai sentimentalismi che potrebbero attraversarla. Per scoprire la verità lo scrittore ha a disposizione solo qualche indizio. Prima una fotografia. Poi un plico di una trentina di pagine. Poi altri frammenti. Come in un thriller o in un giallo, ogni indizio sembra condurlo misteriosamente verso qualcosa di vertiginoso. Nel disegnare la trama non si accontenta di stabilire un rapporto in una sola direzione, tra sé e il padre, ma allarga lo sguardo in maniera inattesa. E così nascono triangolazioni, geometrie sorprendenti. La storia parallela di due bambini.
La folgorazione, infatti, avviene davanti a una immagine del grande fotografo svizzero Werner Bischof. Mentre scorre le foto scattate in Olanda dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Pace scova una serie di ritratti molto diversi dagli altri. Tra questi, uno è un pugno nello stomaco: la foto di un bambino che somiglia al padre, soprattutto per via delle cicatrici che ne hanno sfigurato il volto. Lo scrittore si mette sulle tracce del bambino della foto, che acquisisce un nome, Jo Corbey, e una vita tutta da scoprire e comprendere. Vittima anche lui, a Roermond in Olanda, del colpo di coda della guerra: l’esplosione di una mina. Intrecciando i segni lasciati dal genitore assieme a quelli di Jo, quasi un gemello per destino e identità, Pace ricompone i pezzi della storia di suo padre. Tra speranze tradite, illusioni, colpi di scena. Così i traumi subiti da bambini riaffiorano negli incubi e nelle ossessioni. E torna il tempo in cui, sotto un cielo gonfio di nuvole a volte nere a volte leggere, ogni cosa aveva un colore.
