"Carlo è vivo, Carlo vivrà": in ricordo di Casalegno, il primo giornalista ucciso dalle Br

Il vicedirettore de La Stampa rimase gravemente ferito in un agguato brigatista il 16 novembre 1977. Morì dopo un'agonia di tredici giorni. Partigiano, intellettuale, democratico, nei suoi articoli invitava a non avere paura del terrorismo. E per le sue idee è stato assassinato

C'è un uomo con l’impermeabile che sta tornando a casa per pranzo, e scende dall’auto nel novembre torinese portandosi dietro una cartella con i suoi libri. Ha il mazzo di chiavi nella mano destra, entra. Quando si richiude la porta del palazzo al 54 di corso Re Umberto una mano la ferma, la spalanca e passano in due nell’androne vuoto. Sono i brigatisti Raffaele Fiore e Piero Panciarelli, con Patrizio Peci che li copre all’esterno e Vincenzo Acella che aspetta in strada col motore acceso. Chiamano l’uomo coi capelli bianchi e gli occhiali che li precede di pochi passi, fanno il suo nome per insicurezza o forse per ignoranza: «Professor Casalegno»? Lui si volta, armato soltanto della stilografica che tiene nel taschino. Loro puntano due Nagant M1895. Mirano alla testa da pochi passi, quattro colpi che centrano il bersaglio nel volto e sul collo, poi la fuga, mentre il vicedirettore della Stampa crolla a terra nell’eco degli spari.

Accorre la portinaia Marianna, si china sul corpo nel sangue, lo chiama, urla, corre al campanello per avvertire Dedi, la moglie, che è al telefono ma capisce subito e si precipita giù dalle scale. Poi la scena quotidiana di Torino 1977. Le sirene, le volanti di polizia, le ambulanze, la lettiga, una piccola folla nel controviale, l’orrore e la paura, la sensazione di un assedio che non vuole finire. Parte una telefonata ad Andrea, il figlio che lavora all’Einaudi, un’altra ad Arrigo Levi il direttore della Stampa, una terza alla redazione del giornale. Una chiamata arriva anche all’Associazione Stampa Subalpina, dove si sta svolgendo una riunione sindacale. Siamo vicini. Corro senza fermarmi, per il corso e poi nel viale, e arrivo mentre stanno portando via Casalegno. Vedo Ottavio Comand, che lavora con me alla Gazzetta del Popolo: «Gli hanno sparato alla testa», dice subito nella luce blu dei lampeggianti. «Non ci credo - rispondo - volevano ammazzarlo?».

Avevano ferito Indro Montanelli, direttore del Giornale, all’inizio di giugno, lo stesso giorno avevano sparato sette colpi a Vittorio Bruno vicedirettore del Secolo XIX, il 3 giugno avevano colpito alle gambe Emilio Rossi, direttore del Tg1, il 12 settembre avevano azzoppato a pistolettate Nino Ferrero, cronista dell’Unità torinese. La campagna contro i giornalisti era in pieno svolgimento: colpirli per additarli come nemici all’opinione pubblica, ma anche per intimidirli, in modo che pensassero alla loro incolumità mentre infilavano il foglio nella macchina per scrivere, ogni volta che si occupavano di terrorismo. Poi la decisione di “alzare il tiro”, scritta nei proclami dei loro comunicati. Adesso con Casalegno capivamo cosa volevano dire. «Carlo è vivo, Carlo vivrà», ripeteva Arrigo Levi con più speranze che certezze all’ingresso dell’ospedale Molinette, sotto il neon della prima sera. Ma intanto i brigatisti al riparo di qualche covo avevano deciso di alzare davvero il mirino dei loro revolver, sparando contro un uomo per le sue parole e i suoi scritti, come faranno tre anni dopo con Walter Tobagi.
Giancarlo Casalegno

La cornice tutt’intorno era livida, Torino contava i suoi morti, l’avvocato Fulvio Croce ammazzato a giugno per mostrare quel sangue sulla toga al processo contro Curcio e i suoi primi compagni, faticosamente in scena proprio in città; lo studente Roberto Crescenzio bruciato vivo dalle molotov lanciate dentro il bar “Angelo azzurro” perché era frequentato da fascisti, morto «per sbaglio ma non per caso», in un rogo ideologico disumano; il poliziotto Giuseppe Ciotta freddato in via Gorizia, con la moglie che incomincia a urlare dal ballatoio appena vede la macchina del prefetto che frena nel cortile, per portare lo Stato a porgere le condoglianze e sparire per sempre. E poi la lunga catena dei feriti: sei uomini Fiat, tre politici democristiani, Dante Notaristefano ad aprile, Antonio Cocozzello colpito mentre aspetta il tram con la sua cartella di plastica marrone, Maurizio Puddu a cui esplodono le ossa delle gambe centrate dalle pallottole. E infine lo psichiatra Giorgio Coda, ferito alle spalle e alle gambe: «Cristo, l’hanno crocifisso», dirà il medico del pronto soccorso mentre taglia i pantaloni per tamponare le ferite e lui rifiuta di dire il suo nome, perché era stato condannato per sevizie ai malati di mente che aveva in cura, e Torino sapeva. Nessuno era al riparo, il terrorismo sembrava essere ovunque. E la città che al mattino presto si infilava in fabbrica a testa bassa, che si ritrovava ai funerali due volte la settimana, che organizzava le manifestazioni era scena del terrore ma anche soggetto politico dell’eversione e della resistenza alla sua sfida: e nessuno sapeva come sarebbe finita. E Giampaolo Pansa, per Repubblica, registra davanti alla porta 2 di Mirafiori la mutazione nascosta dell’anima operaia cittadina, il suo farsi da parte davanti all’attentato, la sua nuova sordità.

Era dentro questo laboratorio incandescente che Casalegno viveva scrivendo e ragionando. Partigiano, uomo del Partito d’Azione come molti intellettuali piemontesi che approderanno alla Stampa (Galante Garrone, Mila, Bobbio, Jemolo, Gorresio) è un uomo d’ordine liberale, convinto che lo Stato debba far valere le sue leggi contro l’eversione senza indulgenze e compromessi, ma senza la scorciatoia pericolosa di una legislazione speciale: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, garantendo sicurezza ai cittadini, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa. Anzi, uno degli effetti collaterali del terrorismo, per lui, è il «veleno insidioso» che inocula nei cittadini, spostando per paura e per reazione la maggioranza degli italiani a favore della pena di morte. La rappresaglia che usa violenza contro violenza per Casalegno non è solo illegale ma pericolosa, «perché distrugge la democrazia senza eliminare il terrorismo, anzi gli regala militanti, simpatizzanti, giustificazioni». Dentro il quadro della legalità repubblicana, che da partigiano aveva contribuito a ripristinare, il giornalista chiede la chiusura dei covi, delle sedi di Autonomia, la fine dell’immunità per i guerriglieri urbani che inneggiano alla P38, per la vasta area semiterroristica che col suo fanatismo è «il peggior male italiano».
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Chiusi a progettare la morte altrui nei loro rifugi, i brigatisti della colonna torinese che porta il nome della compagna di Curcio, Mara Cagol, trasformano Casalegno nel loro bersaglio proprio per queste parole, per lo studio continuo del professore sulle loro dinamiche sanguinarie, per la sua capacità di tenere insieme legalità e democrazia, i diritti di libertà e il diritto alla sicurezza. Nel volantino di rivendicazione lo definiranno «servo dello Stato»: lui che aveva intitolato la sua rubrica settimanale sulla Stampa proprio “Il nostro Stato”, con un concetto proprietario, da cittadino consapevole dei suoi titoli e delle sue responsabilità davanti a quell’infrastruttura civile costruita per il bene di tutti che sono le istituzioni democratiche: altro che servo.

Mentre quella maschera simbolica centrata dalle pallottole viene raffigurata nei volantini, l’uomo Casalegno in ospedale tenta di lottare contro il destino di morte deciso da assassini che nemmeno lo conoscevano. Sono 13 giorni di attesa che Andrea, il figlio, passa dietro la porta a vetri chiusa del reparto di terapia intensiva. È un ragazzo di Lotta Continua, ha spesso discusso col padre litigando, crede nel movimento, e anche adesso su quelle scale non cambia le sue idee. Ma il cortocircuito emotivo e politico del terrorismo sulle scale di casa gli fa fare un passo in più, innescando da un dramma privato una riflessione collettiva. Con Gad Lerner e Andrea Marcenaro lo intervistiamo seduti sugli scalini delle Molinette, per Lotta Continua e per la Gazzetta. Racconta la lontananza delle idee del padre, ma anche la sua assoluta integrità, la sua autonomia intellettuale, parla di quella rete di amicizia e solidarietà azionista «tutta interna alla vecchia borghesia torinese» che vede sfilare sotto i suoi occhi in ospedale, denuncia la pretesa “pazzesca” di emettere una sentenza contro una persona per qualche suo scritto, e infine pronuncia la frase-chiave che rotolerà per settimane dentro il movimento: «Non si uccide un uomo per le sue idee».

Da figlio, Andrea ha fatto ritornare persona suo padre, che i brigatisti avevano disumanizzato identificandolo con la democrazia-feticcio contro cui sparavano. Ma quella persona attaccata alle macchine, adesso, non ce la fa più a combattere e il suo cuore cede il penultimo giorno di novembre. L’ultima immagine di quel 1977 torinese è la porta ormai aperta del reparto ospedaliero perché non c’è più niente da proteggere, e Andrea che cammina nel lunghissimo corridoio dietro una bara di metallo su un carrello a ruote, per scendere fino alle celle mortuarie. C’è il direttore della Stampa accanto a lui, che porta con sé, quasi abbracciandolo, l’ultimo vestito per il padre. Un abito, una cravatta e una camicia bianca. Così muore un liberale azionista, l’intellettuale borghese e democratico che faceva paura alle Brigate Rosse, semplicemente un giornalista: da ricordare oggi, quarant’anni dopo, ogni volta che qualcuno infanga questo mestiere o vuole limitare la sua libertà.

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