
Tutti a casa ma armati fino ai denti. Non di pistole e fucili, per carità, quelli lasciamoli agli americani. Ma di intelligenza, passione, immaginazione. E tecnologia. Tecnologia digitale in particolare. Quella che ci permette di comunicare a distanza, ma anche di inventare forme e contenuti nuovi per un mondo che comunque vada sarà diverso. E sarà affamato di immagini in movimento anche se queste immagini, con i set chiusi o presidiati per la pandemia, saranno sottoposte a mille restrizioni.
Le grida, legittime, degli autori costretti a fare salti mortali, sono un sottogenere diffusissimo nell’ambiente. Come si farà con le scene d’amore? Che trucchi useremo per avvicinare o distanziare gli attori? Si gireranno solo piccoli film prevalentemente domestici come il profetico “Buio” di Emanuela Rossi, già sulle piattaforme, storia di tre ragazzine sequestrate in casa dal padre-padrone Valerio Binasco per via di una fantomatica catastrofe ambientale? E chi accetterà più di assicurare imprese costose e affollate come un set cinematografico?
Domande senza risposta, almeno per ora, che si sommano a quelle generate dalle nuove abitudini di spettatori drogati di streaming e spiazzati da un’offerta che quando riapriranno le sale sarà una vera alluvione, con decine e decine di titoli di serie A in fila da mesi. Ma c’è un piccolo mondo a parte, sempre meno piccolo in verità, dove tutto questo frastuono non arriva. È il mondo dell’animazione e dei suoi derivati. Che in questi mesi di lockdown non solo non si è fermato ma ha affilato le armi e scoperto nuove possibilità.
Sia in termini di organizzazione del lavoro che di prodotto finale. Anche in Italia, dove l’animazione sembra condannata a essere un’eterna Cenerentola, malgrado i talenti e la domanda del pubblico. Perché per fare cartoons, o elaborare quelle immagini virtuali sempre più presenti in tutti i nostri consumi culturali, dai programmi televisivi ai musei, non serve nessun contatto fisico. E il confinamento, anziché sconcerto e depressione, ha prodotto una vampata di creatività che potrebbe bruciare a lungo. Sempre che ci sia qualcuno pronto a intercettare questa energia e a convertirla in qualcosa di stabile.
Non si tratta semplicemente di prodotti e consumi, attenzione. A essere in gioco è un mutamento che potrebbe investire l’intero mondo audiovisivo. E non solo, perché se fra gli imperativi del prossimo futuro c’è un’organizzazione del lavoro più flessibile, chi già adesso produce secondo schemi più aperti ha molto da insegnare. Come emerge da un breve giro d’orizzonte che abbraccia imprese diversissime ma in fermento come la napoletana Mad di Luciano Stella, al lavoro sul nuovo film d’animazione di Alessandro Rak, il distopico “The Walking Liberty”, o la romana Arsenale 23 di Ernesto Faraco, che invece sviluppa ricostruzioni in 3D ed effetti speciali per programmi come quelli di Alberto Angela, ma ha appena prodotto un corto sul lockdown sbarcato anche negli Stati Uniti, “Test Covid-19 Notte” di Sebastiano Facco.
«Il dato da cui partire è l’accelerazione digitale», spiega Stella, fondatore di una piccola “factory” partenopea che dai 12 elementi con cui fu realizzato “L’arte della felicità”, primo film d’animazione della Mad, è passato a un gruppo stabile di 40 persone, età media 35 - 40 anni. «In guerra si sviluppano la medicina e le tecnologie, e così è stato per il digitale durante l’emergenza». Non che realizzare o vedere cartoons sia una priorità, ma «se il virus impone distanza, l’animazione permette da tempo di lavorare in remoto e in rete. In Italia tendiamo a sottovalutarlo per atavica miopia. I “cartoni” sono considerati roba per bambini, anche se da vent’anni fra i campioni d’incasso di tutto il mondo si moltiplicano i titoli d’animazione. Ma la verità, che oggi salta agli occhi, è un’altra. Grazie al digitale puoi montare una grande coproduzione internazionale da remoto, scavalcando le frontiere fisiche. E sperimentare linguaggi e orizzonti di racconto che la cultura e le strutture produttive di casa nostra difficilmente prevedono».
L’animazione insomma è internazionale quasi per natura. Il successo che ebbe a suo tempo il grande Bruno Bozzetto negli Usa, o l’affermazione planetaria dello studio Ghibli di Miyazaki e Takahata, stanno lì a provarlo. La velocità e l’immaterialità del digitale moltiplicano in modo esponenziale questa vocazione. Facendo della nuova animazione anche un modello produttivo.
«La grande scommessa varata con “L’arte della felicità”», spiega Stella, «fu puntare su un software d’animazione open source: Blender». Il che significa abbattere i budget, scavalcando gli esosi programmi usati dalle Majors. E vedere il programma evolversi nel tempo, perché ogni animatore che lo usa lo plasma, lo migliora, e poi mette in rete le sue innovazioni. «Così come, sfruttando il lockdown, i nostri animatori più esperti hanno formato i nuovi arrivati con generosità imprevista e forse impossibile in tempi normali», conclude Stella, che da anni sogna di veder nascere un vero e proprio “distretto digitale” nell’area partenopea.
Ma è mai possibile che un settore in crescita tumultuosa come l’animazione, caratterizzato da una concorrenza spietata, faccia un uso così virtuoso dei limiti imposti dall’epidemia? Sembra proprio di sì. Lo conferma Ernesto Faraco, Ceo di Arsenale 23, che vanta fra le sue ultime creazioni “Invisible cities”, un sistema in realtà virtuale destinato a rivoluzionare il turismo trasmettendo sui finestrini dei minibus ricostruzioni animate dei luoghi attraversati dai visitatori così com’erano secoli addietro. Magari assistendo in diretta all’eruzione che cancellò Pompei, ricreata col massimo scrupolo mobilitando specialisti delle più varie aree, dall’artista addetto allo storyboard all’esperto in dinamica dei fluidi chiamato a rendere più realistica la nube piroclastica.
«Anche noi usiamo programmi open source che vediamo crescere a gran velocità», dice Faraco. «I nostri designer, quasi tutti giovani e giovanissimi, sperimentano di continuo. Lavorano e imparano, imparano e lavorano, senza orari o gerarchie. Quello che oggi chiamiamo smart working ce l’hanno nel sangue. In più trasmettono i risultati ai loro compagni di lavoro in tempo reale. Oggi del resto vai avanti solo così. Il progetto bocciato da Confindustria, quattro giorni di lavoro a settimana e uno di formazione, sembra nato per loro ma andrebbe applicato a molti altri settori. Lo dicono anche gli psicologi. Il metodo d’apprendimento dei nativi digitali non è logico-sequenziale ma caotico-puntuativo. Imporre ritmi e modalità diverse significa rinunciare a priori alla loro parte più creativa».
E usare il loro lato creativo consente di conciliare spettacolo e apprendimento, utilizzando la realtà virtuale per mostrare ai visitatori com’era una volta il Colosseo, o Ostia Antica, o Aquileia. Ma anche le battaglie combattute da Maometto intorno alla città di Medina, per citare un altro progetto realizzato da Arsenale 23. A riprova che queste tecniche sono davvero la lingua franca dei nostri giorni, capace di attraversare confini e culture. O per dirla altrimenti il petrolio della nostra epoca sempre più immateriale. Non solo per scelta ma forse per necessità