Dieci giorni in giro per l'Europa, su e giù tra piazze, treni e stazioni. Da Milano a Parigi. E poi Stoccarda, Ulm, Monaco di Baviera, Kufstein, Innsbruck, Verona, Milano, Marsiglia, Montpellier, Barcellona, ancora Montpellier, Marsiglia, Nizza, Montecarlo. E ritorno in Italia. Dal 21 novembre al primo dicembre. Cinque controlli di polizia: in Germania, Austria, Francia e Spagna. Sempre con la stessa intenzione: presentarsi come Roman Ladu, mostrare il decreto di espulsione ed essere rimpatriato a Bucarest. Oppure fermato per immigrazione clandestina: perché nell'archivio centrale delle polizie dell'area Schengen il finto nome romeno è associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Così dovrebbe risultare dopo i reportage sotto copertura nel centro di detenzione di via Corelli a Milano nel 2000 e in quello di Lampedusa nel 2005. Invece il costoso cervellone europeo non scopre nulla. E alla fine la risposta è sempre la stessa: «Grazie, può andare». Quattromila chilometri di libertà che affossano ogni possibile efficacia delle espulsioni di cittadini europei, come pretende il pacchetto sicurezza italiano. Perché la circolazione delle persone in Europa è un principio sancito dai Trattati.
Così l'Italia della paura rimane un caso isolato. E ogni Paese diventa un mondo a sé. In Germania, invasa dalla 'ndrangheta e scioccata dalla strage di Duisburg, sono gli italiani a essere perquisiti. In Austria basta dire di voler arrivare a Verona per tranquillizzare gli agenti e farla franca. Mentre a Barcellona è la polizia a insegnare come chiedere l'elemosina senza infastidire i passanti. Un salto indietro alla partenza. Stazione Centrale, Milano. Fuori è pieno di auto con i lampeggianti blu. Una trentina di poliziotti controlla chiunque abbia un volto leggermente diverso dai lineamenti italopadani. Qualcuno viene portato via. Due italiani all'angolo guardano la scena e offrono sigarette di contrabbando ai passanti. Sul Tgv per Parigi la polizia riappare al confine. Gli agenti di Bardonecchia sono saliti davanti. La Paf, la Police aux frontières, arriva alle spalle. Si incontrano alla carrozza 5. Ma controllano soltanto i passeggeri dalla pelle scura. Vengono fatti scendere un pachistano perché ha un visto solo per l'Italia. E quattro ragazzi di colore. Un ispettore contratta con un collega francese la restituzione di un senegalese. «L'abbiamo fermato stamattina». Il francese non è convinto. «Guarda», dice l'ispettore, «sul passaporto ha il timbro d'ingresso dell'aeroporto di Parigi. È vostro ». Il graduato con la tuta blu della Paf osserva il timbro. «Sì, va bene. È nostro». Uno almeno se lo devono prendere. La partita finisce 5 a 1 per la Francia. Roman Ladu passa indenne. Nonostante la barba sfatta e gli abiti dimessi, la polizia di solito non ferma i bianchi.
Così va il mondo. Ma non c'è niente da ridere. La campagna contro i romeni in Italia, innescata dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, ha avuto ricadute fin qui. Un caso tra i tanti. Nicu B., 22 anni, era partito due anni fa da Craiova, a ovest di Bucarest, per lavorare a Pavia. Muratore in nero: «Perché», racconta, «il padrone diceva che mettendomi in regola avrebbe pagato troppe tasse». Il capomastro lombardo gli versava sette euro l'ora e si rubava i contributi di malattia e pensione. Nicu viveva con la moglie e la loro bimba, 9 mesi. Pochi giorni dopo la presentazione del pacchetto sicurezza, la Guardia di finanza è entrata nel cantiere. «Il mio padrone si è preso una multa», spiega il ragazzo, «ma io ho perso il lavoro». È l'effetto del pugno di ferro, quando si abbatte a caso sulla gente. Così tre settimane fa Nicu ha lasciato la moglie e la figlia da una sorella a Pavia. E ha cominciato il suo secondo viaggio da emigrante. «Ho preso il treno a Milano, ho il passaporto romeno. I francesi mi hanno lasciato passare. Siamo nell'Unione europea, no?». Ora abita con i genitori in pieno centro a Parigi, in boulevard Haussmann. Dietro al teatro dell'Opera, davanti ai grandi magazzini Lafayette. Una bella zona. Una grande finestra di cristallo come parete. Solo che Nicu, suo papà Paulin, 54 anni, sua mamma, 48 anni, e suo fratello quella finestra la guardano da fuori. La soglia dei negozi di abbigliamento C&A è la loro camera da letto. Il materasso è uno strato di gommapiuma steso su un giaciglio di cartoni. Se fossimo davanti alla Rinascente di Milano, li avrebbero già cacciati. «Siamo più di trecento », ammette Nicu: «Qui intorno a Lafayette e ai grandi magazzini Printemps, veniamo tutti da Craiova». E la polizia non vi ha mai allontanati? «No, i miei sono qui da due mesi, non è mai successo. Non è come in Italia. Se non fai casino, la polizia in Francia non ti ferma. È una società multietnica, come fanno a capire chi è francese e chi è straniero?». Lavoro? «Ho già lavorato a Parigi, in nero per un romeno. Sto aspettando che mi chiami.
Si riparte dalla Gare de l'Est. Roman Ladu va in Germania. A Stoccarda l'Ice per Monaco, il treno ad alta velocità, si muove in ritardo. «Fahrkarte, bitte», chiede la controllora. Bisogna farsi venire un'idea. Basta non consegnare il biglietto giusto. «Passport », ordina lei a un certo punto. Guarda sorpresa il decreto di espulsione. «Da dove viene?». «Da Parigi». Sembra stia leggendo le frasi in inglese e in italiano. «Ah, questo è scritto in francese», borbotta confusa, «devo chiamare la polizia». Il poliziotto è a bordo. Un uomo con lo scudo della Polizei cucito sul braccio del maglione. Legge il decreto di espulsione. «Dunque lei è romeno e non ha il passaporto», commenta in francese. Confabula con la controllora. Le dice sottovoce di farmi scendere a Ulm, la prima fermata dopo 85 chilometri. E se ne va. «Ma io non ho soldi, non conosco nessuno a Ulm. Non può lasciarmi arrivare a Monaco? ». «Non è possibile», risponde la donna che per non perdere di vista Roman Ladu si è seduta nella fila accanto: «Non ha il biglietto per questo treno. E poi l'agente ha già telefonato alla polizia, a Ulm la aspettano. Ormai è fatta». Il treno si ferma. La controllora fa strada verso l'uscita. La scena è quasi calcistica. Lei estrae dalla tasca della divisa un cartellino rosso. Scende. Si piazza davanti alla scaletta. Risale, agita il cartellino e lascia chiudere la porta. Il treno riparte. Forse arriverà la polizia come minacciato. E finalmente scatterà l'espulsione. Non arriva nessuno. Fa freddo e piove sulla città del Danubio e di Albert Einstein. Il treno successivo entra a Monaco prima che faccia buio. C'è tempo per lavare qualche parabrezza tra la Arnulfstrasse e il Paul Heyse Hunterführung, il sottopasso della stazione. In 30 minuti, quattro euro e 60. Due euro da una coppia di giovani fidanzati tedeschi. Il resto da una famiglia di rifugiati iraniani, un arabo e un immigrato italiano. Quattro volte più di quanto pagano all'ora molti agricoltori in Puglia per la raccolta dei pomodori. La maggior parte degli automobilisti però rifiuta la pulizia del vetro. Adesso, sotto l'acquazzone, hanno i tergicristalli in funzione. Fine dell'esperimento. Di notte ci ritroviamo in 39 a tentar di dormire in stazione, nella scatola di vetro della sala d'attesa. Alle 4,20 entrano due poliziotti in divisa e giacca a vento. «Polizeikontrolle », avvertono a voce alta. Leggono la parte in inglese del decreto di espulsione. «Roman Ladu è lei?», domandano. Rileggono il nome sul decreto. «Dove deve andare?». «In Austria». Chiamano la centrale via radio: «99, una verifica: Roman ». La risposta arriva in un minuto. «Niente? Bene», dice l'agente. E restituisce il decreto. Come «niente»? Avrebbero dovuto scoprire che il nome Roman Ladu è associato all'alias iracheno di Bilal Ibrahim el Habib. Forse i due agenti non hanno capito. «Scusate, devo aspettare? Vi ho mostrato un decreto di espulsione». Un controllo bis che nessuno si andrebbe a cercare. «Sì, ho letto che lei ha un'espulsione dall'Italia», dice il poliziotto, «ma adesso la Romania fa parte dell'Unione: lei può rimanere in Germania fino a tre mesi». Un ragazzo consegna la sua carta d'identità. È italiano. «Fuori le mani dalle tasche», lo rimprovera l'agente. «99», dice il collega alla radio e detta il nome per la verifica. Poi perquisiscono il suo zaino.
Il ritorno è un viaggio in treno senza intoppi fino a Milano. L'ultima sosta a Montecarlo. Una notte di bivacco nel principato dei casinò, dei miliardari e delle bodyguard. Eppure si può dormire indisturbati sul marciapiede della stazione. Sotto volte di marmo, luci e telecamere. Appena sopra la chiesa di Saint Devote e la prima curva del gran premio. Giusto per vedere l'effetto che fa.