Per la paura degli attentati, migliaia di belgi hanno abbandonato la capitale per trasferirsi 
a Mechelen, appena più a nord. Dove un sindaco illuminato ha creato un miracolo di integrazione. Tolleranza zero, controlli, telecamere. Ma anche mille iniziative per far 
sentire gli islamici parte della società

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Che la capitale d’Europa nasconda nel suo ventre la culla del jihadismo europeo, più che lo scherzo è lo schiaffo di un destino sempre più amaro. Dal 2012 a oggi dalla regione belga tra Bruxelles e Anversa, sono partiti per la Siria e l’Iraq quasi 500 “foreign fighter”.

Come Abdelhamid Abaaoud, l’ideatore degli attacchi parigini del 2015, e il suo braccio destro Salah Abdeslam; e poi Najim Laachraoui e Mohamed Abrini, responsabili dei morti nell’aeroporto di Bruxelles lo scorso marzo. Una striscia di Europa che potrebbe tornare a essere obiettivo dei terroristi, se molti dei giovani partiti in nome della Jihad torneranno a casa.

Ma in questi campi di coltura del terrorismo islamico esiste un presepe di speranza a mezz’ora di auto da Bruxelles. Si chiama Mechelen, fu nel 1500 capitale del Benelux per volere dell’arciduchessa Margherita d’Austria, e oggi con i suoi 90 mila abitanti di 128 nazionalità diverse è l’unica città belga a non avere nessuno dei suoi figli al servizio dello Stato islamico.

«Sono partiti in 198 da Bruxelles, in 93 da Anversa, in 28 da Vilvoord, che è a soli 5 minuti da qui. Ma zero da Mechelen», sottolinea orgoglioso Bart Somers, da 15 anni sindaco, liberale, uno dei primi cittadini più acclamati d’Europa. Mechelen è infatti un simbolo europeo di integrazione ottenuta lottando contro degrado e discriminazione: così da cittadina poco conosciuta si è trasformata in una delle mete più ricercate del Paese.
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«Eravamo 75 mila abitanti nel 2001 e siamo 87 mila oggi», racconta Somers, 51 anni: «Sempre più persone della classe media vengono ad abitare qui da Bruxelles facendo crescere l’economia locale a un ritmo superiore a quello di tutta la regione e riqualificando la periferia urbana».

E dire che quindici anni fa Mechelen aveva il tasso di criminalità più alto del Paese. «Era conosciuta come la “Chicago sul Dyle”, il fiume che l’attraversa», racconta Gabriella Defrancesco, padre italiano, ex maestra d’asilo, responsabile dell’integrazione dei 150 profughi ospiti di un campo d’emergenza che sarà smantellato a fine anno, con l’inserimento in città dei nuovi arrivati: «Era sporca e scura, non come oggi». A quel tempo l’estrema destra prendeva il 30 per cento dei voti. Oggi le parti si sono invertite. Il partito liberale (al governo in un’inedita alleanza con i verdi) è salito dal 9 al 35 per cento dei consensi.

LA RICETTA ANTI JIHADISTA

Il segreto del suo successo? Una politica “creativa” la definisce lui, né di destra né di sinistra. O forse un po’ di tutte e due.
«La mia ricetta si basa su due pilastri fondamentali: la sicurezza e l’inclusione», spiega. Entrambe indispensabili. Oggi Mechelen è la città in Belgio con il più alto budget destinato alle forze di polizia e con il maggior numero di telecamere, in centro come in periferia.

«Sicuramente ho una politica di tolleranza zero», non si fa scrupolo di dire: «Non accetto che ci siano dei quartieri conosciuti per il mercato della droga o per il riciclaggio di articoli rubati. Chi è la vittima numero uno della criminalità? I figli delle famiglie più povere. E questi non saranno mai davvero integrati nella società se non si sentiranno al sicuro». Ma, accanto al bastone, c’è la carota: cioè la visione inclusiva.

«Dobbiamo accettare che viviamo in un mondo globale e che la diversità sia diventata la nuova normalità. Io sono la quattordicesima generazione della mia famiglia ad abitare qui, le mie origini risalgono al 1507. Ma sono la prima generazione che vive in una Mechelen multiculturale, dove Mohammed è cittadino tanto quanto lo sono io». Il problema, continua Somers, è che gli abitanti non vogliono vedere i nuovi arrivati come loro pari, anche se lo sono legalmente. A un certo punto le seconde e terze generazioni si rendono conto che non faranno mai parte della società in cui sono nati o cresciuti, e cominciano a sviluppare una visione in bianco e nero della vita. E questo è un regalo per i reclutatori: entrando nei ranghi dei jihadisti «passano dall’essere “zero” all’essere “hero”», eroe, con Dio dalla loro parte. Un giovane di Mechelen su due ha una storia familiare di immigrazione e il 20 percento di loro è musulmano, per lo più di origine marocchina.
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«Qual è la migliore strategia contro l’Isis? Il vivere insieme», ci tiene a sottolineare il sindaco. I problemi si acuiscono quando i cittadini vivono in quartieri diversi, ricchi e poveri, quando si formano isole di degrado. «Dal primo giorno in cui sono diventato sindaco mi sono concentrato sulle periferie. Ho installato lampioni e telecamere ovunque e ho ripulito i giardini pubblici. Poi mi sono assicurato che fossero sorvegliati: per ogni carta gettata a terra 50 euro di multa, indipendentemente dal reddito. Così le nuove famiglie borghesi che considerano di venire a vivere qui ma scoprono di non potersi permettere il centro storico potranno acquistare casa in periferia senza preoccupazioni. Vivranno accanto a famiglie di immigrati e creeranno quartieri misti, gli unici in grado di arginare il disagio e promuovere la cultura e i modi nazionali. I nuovi arrivati hanno infatti i mezzi economici e le capacità intellettuali per ridare colore a questi quartieri».


CAMBIARE LA NARRATIVA

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Si entusiasma quando parla Somers, con la forza di un predicatore più che con l’aplomb di un sindaco. «Noi le aiutiamo, queste nuove famiglie della classe media. Ad esempio, offriamo 250 euro a chiunque voglia organizzare un barbecue per la sua strada, lo hanno già fatto in 130. Oppure permettiamo, con la presentazione del 50 per cento delle firme delle famiglie di una strada, di chiuderla al traffico per un periodo e consentire a tutti i bambini di scendere in strada a conoscersi e giocare». Risultato? Quindici anni fa un negozio di Mechelen su tre chiudeva. Ora la gente scappa da Bruxelles per venire a vivere qui.

L’integrazione però ha un prezzo. Necessita di strumenti e di risorse. «Quando sono diventato sindaco il 63 per cento del budget era destinato al personale. Oggi è solo il 37 per cento. Così ho creato spazio per gli investimenti sulla città», dalla sicurezza all’illuminazione, gli stessi che attraggono ora nuovi abitanti. «All’inizio mi vedevano tutti come il cattivo, ci ho messo un po’ ad avere la fiducia della popolazione».

Tante le iniziative per favorire l’integrazione. Quando due anni fa il Belgio ricordò il cinquantenario dall’inizio dell’onda immigratoria di massa, il 1964, Mechelen andò oltre: «Noi celebrammo quella data appendendo in tutta la città 122 poster di facce di origine diversa per sottolineare il volto moderno di Mechelen». E poi c’è la storia dei pupazzi. Come tante cittadine delle Fiandre, anche qui esiste la tradizione medioevale della parata di pupazzi giganti. A Mechelen sono esibiti una volta ogni 25 anni in ricordo dell’avvento del Sacro romano impero.

Originariamente erano quattro, padre, madre e due figli. Tutti bianchi. «Ne ho fatti fare due in più, uno nero e uno meticcio». Perché «per integrare dobbiamo cambiare la narrativa». Continua Somers: «Nel giorno degli attacchi all’aeroporto di Zaventem sono andato in moschea a spiegare come i cittadini di fede musulmana fossero stati colpiti due volte dagli attacchi. Una volta come gli altri e una seconda in quanto la loro religione era stata strumentalizzata dal terrorismo». E se il sindaco di Vilvoorde, la cittadina a fianco di Mechelen, ha detto ai suoi ragazzi che se volevano partire per la Siria si accomodassero pure, «io ho sempre insistito che se qualcuno di noi parte perdiamo tutti perché il ragazzo che parte è uno di noi».


ARRIVARE PRIMA DELL'ISIS

Così Somers ha messo in piedi un sistema complesso sia di incoraggiamento sia di controllo sociale, volto a prevenire la radicalizzazione dei ragazzi musulmani tra i 14 e i 20 anni, i soggetti più a rischio. «Cerchiamo di creare dei modelli sociali positivi e di formare musulmani che credono nel valore dell’illuminismo». Alle parole seguono i fatti, con sovvenzioni per chi fonda movimenti e scrive libri che spiegano come si possa essere insieme musulmani ed europei. All’interno del comune esiste un’organizzazione che lavora con i genitori per creare scuole sempre più miste per provenienza sociale e etnica. E poi un gruppo che si occupa di scoutismo laico a cui invita tutti i ragazzi a partecipare. E ben venga la modifica di qualche regola, come il cibo halal: «Perché l’esclusione nasce dalle piccole cose. E non è tanto la convivenza di ragazzi e ragazze che spaventa le madri musulmane quanto la mancanza della possibilità di seguire le proprie tradizioni pur stando in mezzo agli altri».

Somers ha anche creato un’unità “anti-radicalizzazione”, guidata da Alexander Van Leuven, un antropologo trentenne, che insieme a un teologo, due pedagoghi, un’ex insegnante e un esperto di amministrazione pubblica, aiuta quei giovani che simpatizzano per l’estremismo. «Dobbiamo raggiungerli prima che lo faccia l’Isis», spiega: «Per fallire a volte basta un ritardo di due mesi. Una volta radicalizzati è quasi impossibile recuperarli». Al momento di giovani radicalizzati e sotto stretta sorveglianza ce ne sono due a Mechelen. E 16 considerati “a rischio”. Pochi casi, un lavoro immane. «Questo ragazzo», dice Van Leuven, in testa il volto di un ragazzo di origini marocchine con la sindrome di una personalità multipla, «lo seguiamo ovunque. Gli organizziamo colloqui di lavoro e verifichiamo che ci vada. Quando non ci va lo andiamo a prendere a casa e gli parliamo.

Per evitare il contagio, Van Leuven e i suoi sono in contatto con le scuole, con le moschee, con le associazioni giovanili, con le palestre. «Abbiamo salvato tre ragazzi dalla jihad», racconta Abdel El Oualkadi, figlio di immigrati marocchini, ex campione di thai box, ex detenuto, oggi saldatore e anima della palestra Royal Gym, il migliore centro di thai box di Mechelen: «Voglio contribuire a cambiare l’immagine del Belgio, convincendo questi ragazzi che hanno un futuro qui da noi. Sono il razzismo e la scarsa educazione i motivi che facilitano il reclutamento. La religione è solo un tramite.

«Ho fatto richiesta: se il ministro degli Interni me lo consentirà voglio andare anche nelle carceri a parlare con i ragazzi perché è lì che spesso i ragazzi sono iniziati all’estremismo. La maggior parte degli estremisti ha un brutto passato. Non vedrai mai un dottore o un ingegnere radicalizzato».


Lui e il socio Mustafa sono diventati il punto di riferimento delle forze di polizia di Mechelen, dell’amministrazione comunale e di quei genitori che, impotenti, vedono i figli scivolare tra le maglie del fanatismo. In palestra ragazzi e ragazze insieme di ogni età e colore si allenano contro la rabbia e verso la speranza. La loro giornata ruota intorno alla scuola e alla palestra, con una ricetta semplice ma sicura: scuola, merenda, compiti, palestra e a letto alle nove. «Non ci deve essere tempo per la strada». Intanto Somers sta lavorando per trovare il modo di offrire un futuro ai ragazzi che non si lasciano incantare dalle sirene dell’estremismo. Compito non facile in un’Europa dilaniata dalla crisi economica. «Le pratiche discriminatorie rimangono il problema più grande insieme alla difficoltà di offrire opportunità a tutti», riflette. Per questo studia come rendere legali strumenti atipici per combattere la discriminazione. Come le “chiamate misteriose”, ovvero telefonate fatte alle agenzie immobiliaridella città per individuare chi non vende agli immigrati, complicando così la loro situazione sociale.
«La nozione indispensabile per l’integrazione è la certezza che lavorando tanto puoi ottenere una vita migliore per i tuoi figli. Senza mobilità sociale ciò che dico da liberale rimane una fiaba». E finisce che non ci crede più nessuno.

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