I loro figli sono nati e cresciuti in Belgio. Poi si sono radicalizzati e sono andati a combattere per l’Is. E tornano per compiere stragi, come quella del 22 marzo. I racconti, il dolore e la lotta delle donne che li hanno messi al mondo (Foto di Poulomi Basu)
A Bruxelles tutti si assicurano di non avere parenti o amici fra le vittime. A Molenbeek la paura è avere parenti o amici fra i carnefici. Come le mamme di questo quartiere: quelle i cui figli sono partiti per fare la “guerra santa” in Siria o Iraq e potrebbero essere tornati, in segreto, per compiere stragi. Molte di queste madri dovevano trovarsi in Rue de l’École 76, a Bruxelles, alle 16.30 di martedì 22 marzo: proprio il giorno degli attentati. Sono invece rimaste attaccate al telefono, chiuse nelle loro case. «Devi perdonarmi ma siamo tutte nel panico», si scusa frettolosamente Jamila Hamdaoui, una delle responsabili dell’associazione “Les Parents Concernés” (Genitori preoccupati): «Molte di noi non riescono a entrare in contatto con i figli, e non sono ancora usciti i nomi dei responsabili degli attacchi».
Molenbeek è un bel comune a due passi dal centro di Bruxelles, una ventina di minuti a piedi dal quartiere delle istituzioni europee. Qui si era appena tirato un sospiro di sollievo per la fine della caccia a Salah Abdelslam, senza sapere che la tempesta era pronta a ricominciare. «Ho già perso un figlio in Siria: scongiurare che un altro dei miei bambini diventi un estremista è la sola cosa che mi fa andare avanti giorno dopo giorno», racconta Malika, un’altra delle madri. «In questi quartieri ci conosciamo un po’ tutti», spiega una terza che agli incontri indossa sempre un hijab rosa con le perline argentate: «Se non è un parente diretto ad essere coinvolto, è probabile che sia qualcuno di noto alla famiglia, almeno un conoscente…». [[ge:rep-locali:espresso:285188956]] QUEL LETTO RIMASTO VUOTO [[ge:rep-locali:espresso:285188385]] «Un giorno venne da me e disse: posso partire per un matrimonio islamico, mamma? Certo che ci puoi andare, risposi stupita, non immaginavo intendesse partire per il jihad». Il giorno dopo il letto era vuoto, e alla prima battaglia siriana un proiettile trapassava la tempia del diciannovenne Sabri, missionario “sposo” dell’Islam. Saliha Ben Ali, la madre, da allora ha deciso di convocare periodicamente quelle che chiama «le orfane d’enfants»: le mamme che come lei si sono viste portare via il figlio dalla causa dell’Islam radicale. Obiettivo: capire che cosa è successo, aiutare le altre madri dei quartieri a rischio a «non fare la nostra stessa fine», estirpare il fenomeno dei foreign fighter dal Paese che detiene il record Ue nel rapporto tra combattenti e numero di abitanti. La costante attività nelle scuole, nelle case di Molenbeek ma anche di Schaerbeek e Vilvoorde, non potrebbe continuare senza i loro incontri preparatori al centro Vaartkapoen - in fiammingo significa “Ragazzacci”, ma è solo un caso - nel pieno centro di Molenbeek. Ci arrivano ogni settimana, una dopo l’altra, i capi velati e i bambini per mano. Tutto intorno i bar sono gremiti di uomini, che sorseggiano tè alla menta fumando narghilè mediorientali. Non si vede mai una donna in questi luoghi d’incontro rigidamente maschili, sugli schermi i notiziari sostituiscono le cronache sportive in questi giorni di catture e di nuovi attentati.
«Non sono solo i nostri uomini: anche lo Stato ci sta lasciando sole», spiega Malika, una delle poche con il figlio ancora vivo, sebbene nelle file di Daesh. «Le istituzioni sembrano non capire che la repressione è soltanto la cura estrema di un malanno che andrebbe invece prevenuto». È d’accordo Annalisa Gadaleta, assessore all’Istruzione di Molenbeek, che riceve “l’Espresso” nella sede del comune, a poche ore dagli attentati. «Queste donne eroiche mi ricordano Falcone e Borsellino», dice con le lacrime agli occhi, ricordando i suoi ultimi anni italiani prima del trasferimento in Belgio, nel 1994: «Combattono l’omertà che protegge il fenomeno jihadista facendo cultura nelle scuole, portando la battaglia sul piano culturale, proprio come i magistrati facevano contro la mafia». Il nuovo “Plan Canal”, un programma da 300 milioni proposto dal Ministro dell’Interno Jan Jambon per contrastare l’islamismo nei comuni a rischio della capitale, dovrebbe rafforzare la polizia di Molenbeek che al momento è a corto di personale di almeno 70 agenti. Poco o nulla è previsto per i servizi sociali - proprio da lì bisognerebbe cominciare, secondo le madri - e per iniziative di sensibilizzazione e sostegno culturale come quelle che loro propongono di continuo.
«Lo so che per voi è impensabile, dopo quello che è successo, ma non sono cattivi», sostiene Jamila Hamdaoui parlando di suo figlio e di quelli come lui: «Amano le bevute, le discoteche e le donne, come tutti i ragazzi di quell’età. Hanno solo bisogno d’aiuto». Parole di una madre, naturalmente: e di una madre disperata. Ma che non ci sia coerenza tra i comportamenti e il fanatismo religioso di quei giovani lo dice anche Othman, un taxista che abita nella stessa via dove è avvenuta la cattura di Salah Abdelslam. Racconta di averlo incontrato in un locale con una birra e una canna in mano a sole tre settimane dagli attacchi del Bataclan: «Mai conosciuto nessuno con uno stile di vita più libertino», ride.
"MA DI ISLAM NON SANNO QUASI NIENTE"
«Lasciate perdere la religione, è l’esclusione sociale che ce li porta via», scandisce Malika, rilanciando la tesi di Gadaleta. Suo figlio Mohammed poco prima di partire per la Siria le urlò: «Mamma, se solo mi chiamassi Jean-Jacques, se fossi biondo e bianco come loro, oggi mi girerei i pollici in un ufficio guadagnando un buono stipendio».
Tornano i conti anche per Fabio Merone, esperto d’Islam politico all’università di Anversa: «Il disagio socio-economico è la chiave, la loro violenza è rabbia vestita d’Islam», dice. La loro conoscenza dell’universo religioso «è ancora più scarna di quella che i nostri estremisti rossi avevano dell’ideologia comunista negli anni Settanta», aggiunge. Più giovani e ignoranti di quelli che partirono dal Belgio per andare a combattere contro i russi nell’Afghanistan degli anni Ottanta, più frustrati e arrabbiati di quelli partiti per la Bosnia dieci anni più tardi o per l’Iraq nel 2003: questo il profilo che emerge dei foreign fighter belgi, mentre l’agenzia viaggi in fondo alla strada continua a staccare biglietti di sola andata per la Turchia. «Le madri sono ancora troppo sospettose per venire a chiederci aiuto», si rammarica Saliha Ben Ali, «e anche quando sentono che qualcosa non va, non si rivolgono alle associazioni temendo che facciamo da delatori per la polizia».
E SABRI PENSO': "MEGLIO TERRORISTA CHE SPAZZINO"
Saliha continua a descrivere il percorso di suo figlio Sabri. Racconta che da ragazzo soffriva moltissimo le difficoltà di rapporto con i compagni di scuola, distanza che attribuiva alle origini straniere e alla fede per l’Islam. «Non andò meglio al momento di cercare un lavoro», dice: «Ricordo ancora la sua frustrazione dopo i tentativi di entrare nell’esercito e nel corpo dei pompieri della città». Il posto da spazzino - ripudiato quasi subito perché degradante agli occhi del padre - fu l’ultimo atto prima dei mesi della radicalizzazione e dell’identificazione della propria frustrazione con quella dei popoli musulmani nel mondo, soprattutto i palestinesi. «Il check-point israeliano rappresenta il male assoluto per molti ragazzi disagiati di qui», spiega Karim, che gestisce un’associazione indipendente per sostenerli. «Il rapporto con Sabri ha cominciato a incrinarsi quando ha cominciato a frequentare gente brutta», continua Saliha. «Poi, un giorno, volle vedere i nonni per restare a fissarli delle ore senza parlare: un altro segnale dell’imminente partenza che non ho saputo interpretare».
"PAPA', MAMMA, SIETE DUE TRADITORI"
Malika ricorda il messaggio via Facebook di suo figlio Mohammed qualche tempo dopo la sparizione: «Sono in Siria», semplicemente. Ma già i mesi precedenti erano stati un tormento: «Mio figlio ha iniziato a vedere me e mio marito come traditori della causa, ha preso a trattarmi a pesci in faccia». Però non gli porta rancore e ogni tanto gli parla su Skype: «Non cerco nemmeno di convincerlo a tornare, conosco le ingiustizie che se lo sono portato via di qui. Quando ci sentiamo faccio finta di nulla, non parliamo di jihadismo, di politica o di Daesh. Gli chiedo solo se sta bene, come ha dormito, cosa ha mangiato».
Un’altra madre, capelli tinti e niente velo, non vuole dare il proprio nome ma racconta: «Ho capito che le cose stavano cominciando a mettersi male quando mio figlio ha cominciato a venirsene fuori con delle massime islamiche: noi siamo una famiglia completamente laica e io non ho mai saputo nulla di religione». Allora, spiega sistemandosi i capelli sopra il bagliore rosso degli orecchini perlati, ha provato a mandarlo da un amico fidato che invece d’Islam si intende. Ma non ha funzionato: «Il risultato è che ha travisato tutto, è tornato più arrogante di prima».
Fatima racconta di quanto abitava nella casa bianca di Place Communale, la bella piazza del mercato dove i sanpietrini scintillano sotto la pioggia. A un piano di distanza abitavano gli Abdelslam, la famiglia del terrorista più noto d’Europa. «Ho portato mia figlia in grembo mentre la madre di Salah era incinta di lui, abbiamo partorito a pochi giorni di distanza. Ma adesso, lo ammetto, ho tagliato i ponti per evitare di essere arrestata». Da quella casa, del resto, gli Abdelslam hanno fatto le valige da tempo, stremati dalle insistenze degli unici che i ponti non li volevano tagliare, i giornalisti. A poche vie di distanza è finita la fuga di Salah, in una parte della cittadina che i locali definiscono ancora “la Little Italy di Molenbeek”. Dopo le grandi migrazioni italiane verso le miniere negli anni Quaranta, infatti, tantissimi nostri connazionali si spostarono proprio a Molenbeek, negli anni Sessanta e Settanta. A spingerli furono le opportunità offerte dalle industrie che si affacciavano sul canale, oltre che la progressiva chiusura delle miniere negli anni successivi alla tragedia di Marcinelle. Oggi però sui circa 100 mila abitanti di Molenbeek, gli italiani sono soltanto 1.700: sostituiti da magrebini, turchi e mediorientali, proprio negli anni in cui la deindustrializzazione si portava via la fonte di reddito principale di quest’area popolare. «Oggi qui la disoccupazione giovanile è al 50 per cento e sono 30 mila i giovani al di sotto dei 25 anni», dice Annalisa Gadaleta.
L’attivismo di queste madri le sta rendendo sempre più conosciute. L’assessore all’edilizia Karim Majoros le ha consultate sulla gestione delle case popolari. Mentre Marcella Militiello, rappresentante dell’associazione Libera a Bruxelles, vorrebbe coinvolgerle in un incontro con delle famiglie italiane colpite dalla mafia: «Ha ragione Gadaleta, ci sono molti aspetti in comune tra le due vicende, pur così diverse. Ad esempio, qui le seconde generazioni di immigrati (che non si sentono né legate al Belgio né ai paesi d’origine), trovano nell’Is un’identità forte, come nel Mezzogiorno d’Italia molti giovani mafiosi o camorristi». Poi c’è il denaro, che aiuta a portarseli via: la massima di Borsellino “segui il denaro trovi la mafia” torna utile anche a capire le scelte dei foreign fighter, secondo la Militiello. Il loro numero, intanto, continua a salire: in Belgio sarebbero ormai circa 450, al netto di quelli rientrati, fra cui l’attentatore del museo ebraico di Bruxelles che era stato almeno un anno in Siria. La classifica per numero assoluto rimane dominata dalla Francia, con circa 1.200, seguita da Inghilterra, Germania e Olanda. Il totale di foreign fighter europei sarebbe fra i 3.000 e i 5.000, secondo le stime del direttore di Europol Rob Wainwright.
NO WAR, FUCK DAESH
Salutiamo le madri e lasciamo il quartiere, blindato come in guerra. Bastano dieci minuti di cammino dalla casa popolare dove è stato catturato Salah e si arriva a la Bourse, dove già poche ore dopo gli attentati i cittadini avevano ricoperto una strada di scritte come “No war” e “fuck Daesh” fatte col pastello. Non importa chi ha scritto quelle parole sui muri: ma questa, così difficile e contromano, è anche la battaglia delle mamme di Molenbeek.