
Sono 15 anni che Festa lavora alla Streparava Spa, in provincia di Brescia. «Un tempo non facevo che togliere e mettere pezzi, era un lavoro di fatica», racconta tra le mura bianco candido dello stabilimento illuminato a led: «Negli ultimi 4 anni è cambiato tutto»: l’operaio è diventato un operatore. «Dobbiamo sorvegliare l’azione dei robot e intervenire in caso di cambiamenti o emergenze. E possiamo lavorare su più isole, imparando a gestire diverse fasi della produzione».
L’impresa manifatturiera italiana sta mutando i lineamenti e lo sta facendo a rotta di collo, soprattutto in una regione fortemente industrializzata come quella lombarda. «I nuovi impianti sono digitali. Ormai il lavoro di operaio non è più un lavoro di braccia, ma di esercizio intellettuale, di interazione costante con le macchine», dice Paolo Streparava, 48 anni e terza generazione di imprenditori del gruppo di Adro, che, con i suoi componenti per il settore automotive, nel 2018 ha superato quota 200 milioni di fatturato e i 900 dipendenti solo in Italia.
«Fino a 7-8 anni fa era impensabile avere donne in fonderia», dice Loretta Forelli, 67 anni e patrona dell’omonima impresa metallurgica di cui prese le redini a 31 anni dopo che un incidente stradale le portò via genitori e fratelli: «Adesso i lavori pesanti li fanno i robot e le donne che ho assunto si sono rivelate le migliori». In entrambi i casi per cogliere il potenziale offerto dall’automatizzazione è cruciale l’investimento in formazione del personale. «Ci puntiamo molto», sottolinea Streparava: «Se solo lo facesse anche il governo che invece ha passato un anno a togliere le facilitazioni sull’industria 4.0 introdotte dal governo precedente e che ora le ha reintrodotte in forma ridotta!»
Secondo un recente rapporto della società di risorse umane Randstad, solo il 41 per cento delle imprese è corso ai ripari con programmi di formazione specializzate, mentre appena il 50 per cento degli intervistati ritiene che le università forniscano un pacchetto adatto di competenze. Ed è proprio la mancanza di un piano di medio termine sul fronte formativo il primo aspetto che del “decreto crescita” varato dal governo Conte il mese scorso con l’intento di rilanciare l’economia stagnante, gli imprenditori lombardi come Streparava attaccano con decisione.
«Un’occasione persa» è il giudizio più frequente. In assenza di personale formato a lavorare nell’industria 4.0, non è bastata una nuova forma di ammortizzatore sociale introdotta dal decreto, il cosiddetto contratto di espansione, con l’obiettivo di favorire il turn over generazionale attraverso nuove assunzioni a fronte della riduzione dell’orario di lavoro o dell’anticipazione del pensionamento del personale, a soddisfare la sete di tecnici che ha la nostra industria. Tra i mestieri introvabili ci sono operai specializzati in installazione e manutenzione di attrezzature elettriche ed elettroniche e saldatori, attestano da Unioncamere. «La Germania sforna 80 mila tecnici l’anno, l’Italia 10 mila», insiste Giuseppe Pasini, amministratore delegato del gruppo siderurgico Feralpi e presidente dell'Associazione imprenditori bresciani, noto alle cronache per avere smaltito i resti della nave Concordia: «Abbiamo bisogno di istituti tecnici sempre più moderni e all’avanguardia che preparino tecnici e ingegneri, non certo di “quota 100” che si è dimostrata inutile nel risolvere il problema della disoccupazione giovanile».
Ma la cospicua assenza di un piano nazionale di formazione della futura classe lavoratrice italiana, ossatura portante del nostro sistema economico, non è il solo aspetto della politica economica del governo Conte che preoccupa la classe dirigente della regione locomotiva d’Italia.
«Non mi piace nulla del decreto», dice senza mezzi termini Marco Bonometti, presidente della Confindustria lombarda, a proposito del decreto legge che stanzia 430 milioni di euro per il 2019, 640 entro tre anni, con un effetto sostanzialmente neutro sulle finanze pubbliche, senza però sciogliere alcune questioni di importanza nazionale come l’Ilva.
«Altro che decreto crescita, si dovrebbe chiamare decreto decrescita! Avrebbe dovuto semplificare e invece ha complicato, ad esempio, il calcolo dell’iper ammortamento e del credito d’imposta, che andava benissimo com’era prima». Il riferimento è alla norma, introdotta per la prima volta nel 2016 e rinnovata per il biennio successivo ma abolita dall’attuale governo per l’anno in corso e adesso reintrodotta a partire dal 1° aprile 2019, che consente la deduzione fiscale dei costi di acquisto dei beni strumentali d’impresa con l’esclusione dei veicoli aziendali, in misura maggiorata del 30 per cento e fino a un tetto di spesa di 2,5 milioni di euro. «E poi: che logica è quella di togliere un’agevolazione per poi rimetterla l’anno successivo per un periodo di tempo inferiore? È una follia che crea incertezza. E l’incertezza è nemica dell’impresa».
Ed è esattamente l’assenza di una visione d’insieme sull’economia nazionale, di un progetto strategico di rilancio da declinare poi in provvedimenti singoli, la ragione per cui il decreto crescita non sta avendo da queste parti quel successo auspicato dal governo ma, al contrario, è tacciato di mancanza di coraggio se non di ignoranza tout court del sistema produttivo italiano e delle sue leve.
Senza contare che le annose richieste confindustriali di una riduzione del cuneo fiscale e contributivo, ovvero della distanza tra l’ammontare pagato dal datore di lavoro e quello ricevuto dal lavoratore in busta paga, non sono state nemmeno prese in considerazione.
«Occorre qualcuno che capisca cosa vuol dire lavorare, non uno che non ha mai avuto un lavoro ma a cui fanno fare il ministro del Lavoro», si sfoga Bonometti, che aggiunge: «Ma lo sanno questi che noi industriali abbiamo bisogno dell’Europa? Di un’Europa che dovrebbe avere un ruolo ben maggiore a livello internazionale e che invece adesso sta subendo le pressioni di Cina e Stati Uniti? Invece ci ritroviamo con un governo in perenne campagna elettorale che ha il consenso come obiettivo finale e non come strumento. E che inscena inutili, costose battaglie con Bruxelles».
Non sono i singoli articoli del decreto crescita - con le sue piccole agevolazioni fiscali sugli investimenti, o la riduzione dell’Ires, o gli incentivi al rimpatrio di lavoratori in possesso di laurea e titoli, soprattutto se con figli a carico (in un Paese dove i figli scarseggiano), oppure la detassazione parziale dei beni strumentali d’impresa, capannoni inclusi, o le agevolazioni fiscali per chi ristruttura immobili - a indispettire una classe dirigente industriale che si considera ancora in concorrenza diretta con la power house tedesca. Lo è la mancanza di decisione e coerenza sui grandi temi economici.
Come, quello della rivoluzione energetica che sta trasformando processi e prodotti in tutto il Continente e non è minimamente contemplata nel decreto. «È in fase di discussione il piano nazionale energia e clima», spiega Roberto Saccone, presidente dell’azienda di condizionatori Olimpia Splendid: «È ambizioso ma nel decreto non ci sono misure strutturali a sostegno. Le misure che durano un anno e poi chissà scoraggiano gli investimenti». Oppure la questione dei grandi impianti e delle infrastrutture, giudicati vitali per la crescita industriale. Come l’Ilva di Taranto e il Tav. «Ma come si fa a togliere ai manager l’immunità sulla base della quale Arcelor sta investendo 25 miliardi per rimediare ai danni dei precedenti amministratori, tra cui, tra l’altro, lo Stato?» si chiede Bonometti: «Il dato di fondo è che se non faranno un’azione choc per il lavoro nessuno farà investimenti. Occorre fiducia e certezza delle regole. Non mancette. Occorre rilanciare la manifattura con grandi opere pubbliche. Il decreto sblocca cantieri non sta sbloccando nulla. Meglio cancellare tutte le leggi, farne di nuove e fare partire i cantieri. Ci sono 27 miliardi stanziati che sono ostaggio della burocrazia». E Streparava: «Ma c’è bisogno di ribadire che la Tav va fatta? Che gli impegni presi si devono rispettare e che non si possono costantemente rimangiare decisioni già prese?»
Sulla linea ad alta velocità che dovrà connettere Torino a Lione, creando il cosiddetto corridoio meridionale, gli imprenditori non hanno dubbi. E non tanto perché la reputino indispensabile quanto perché, al di là della convenienza economica o della coerenza del progetto europeo che, a onor del vero, la Corte dei Conti europea ha già bocciato in quanto «sistema inefficace di linee nazionali collegate fra loro privo di un piano realistico a lungo termine», è però diventata l’emblema di tutto ciò che servirebbe all’Italia produttiva e non viene mai fatto, sostituito da decretini tampone quando servirebbe invece un intervento a cuore aperto.