Centinaia di milioni usati per Alitalia, Carige e Salini, seguendo la strada tracciata dai precedenti esecutivi che si giurava di non voler imitare. Dalle vendite dei beni pubblici, invece, non è arrivato quasi nulla

ESPRESSOMUNAFO-20190722154905860-jpg
Nei giorni in cui il governo promette denaro e garanzie per salvare dal disastro l’Alitalia in crisi cronica e profondissima, per dare sollievo a banche pericolanti come Carige o per promuovere un polo nazionale delle costruzioni attorno al gruppo Salini, vale la pena di ricordare che Lega e Cinque Stelle avevano a suo tempo promesso di fare esattamente l’opposto. E cioè tagliare il debito pubblico con le risorse incassate grazie alla vendita di beni di Stato.

È tutto scritto nero su bianco fin dal novembre scorso, nella prima versione della manovra di bilancio per il 2019. Le privatizzazioni, si legge nel documento, frutteranno fino a un punto percentuale di Pil, cioè 18 miliardi circa. Questo l’impegno solenne dell’esecutivo.

Ebbene, a soli cinque mesi dalla fine dell’anno, i fatti stanno ancora a zero. Le vendite annunciate sono rimaste tali. Anzi, nel nome del sovranismo economico i gialloverdi non hanno esitato a impegnare centinaia di milioni, denaro dei contribuenti, in operazioni, come il salvataggio di Alitalia, dall’esito quantomeno incerto.

Per la verità, fin da subito ben pochi analisti avevano preso sul serio il piano del ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Alla voce privatizzazioni, il sedicente governo del cambiamento si è infatti comportato come “quelli di prima”, per usare un’espressione cara ai grillini. Molte promesse, numeri roboanti, ma ben pochi risultati concreti. Mai nessuno, però, tra i predecessori di Tria, aveva messo in preventivo incassi pari addirittura a un punto di Pil grazie alla vendita di beni dello Stato. È anche vero che pur di far quadrare i conti del bilancio pubblico e passare l’esame della Commissione di Bruxelles, l’esecutivo ha dato fondo al repertorio della finanza creativa.

Economia
Dopo una campagna contro i salvataggi delle banche, Lega e 5 Stelle salvano le banche
4/7/2019
A questo punto è utile ricordare che quei 18 miliardi di entrate quanto mai ipotetiche rappresentano più del doppio dei 7,6 miliardi racimolati tre settimane fa per tagliare l’indebitamento pubblico ed evitare la procedura d’infrazione dell’Unione europea. E, inoltre, va segnalato che gli stessi 18 miliardi ormai molto difficili (eufemismo) da incassare sono ancora adesso una delle travi che puntellano la pericolante impalcatura del bilancio dello Stato. Se, come appare probabile, i proventi delle privatizzazioni dovessero restare in buona parte un miraggio, il governo dovrà reperire altrove risorse equivalenti per scongiurare un ulteriore aumento del debito.

Questi mancati introiti vanno quindi ad aggiungersi alla lunga lista delle incognite della prossima manovra d’autunno. Una manovra che già parte in salita con i 23 miliardi da trovare per evitare l’aumento dell’Iva. E che diventerà qualcosa di molto simile a una parete di sesto grado se andranno anche finanziate in qualche modo riforme molto costose (dieci miliardi, forse di più) come la flat tax promessa da Matteo Salvini. Al momento è difficile anche solo immaginare dove e come il governo troverà i soldi necessari per rispettare gli impegni con Bruxelles. E tutto diventa più difficile se un’entrata di un certo peso come i 18 miliardi alla voce proventi da privatizzazioni sembra ormai destinata a svanire.

Per dare un’idea di quanto fossero avventurose le previsioni del governo basta ricordare che cosa è successo a partire dal 2014. In quell’anno il governo di Matteo Renzi allora in carica, con Pier Carlo Padoan all’Economia, si era spinto a immaginare incassi dalla vendita di beni pubblici pari allo 0,7 del Pil dell’epoca, cioè 11 miliardi circa. Nel 2015 la stima venne corretta allo 0,4 per cento e quindi portata allo 0,5 per cento per i dodici mesi successivi. Nel 2017, con Paolo Gentiloni al posto di Renzi a Palazzo Chigi, arrivò una nuova revisione al ribasso fino allo 0,3 per cento.

Le analisi della Banca d’Italia, dell’Ufficio parlamentare di bilancio e gli stessi dati pubblicati dal ministero dell’Economia, rivelano che gli obiettivi fissati nell’ultimo quinquennio sono stati centrati soltanto nel 2015. In quell’anno l’incasso per lo Stato raggiunse i 6,6 miliardi grazie soprattutto a due maxi operazioni. La parziale privatizzazione delle Poste fruttò 3,4 miliardi. In quegli stessi mesi il governo mise sul mercato anche il 5,7 per cento di Enel, che per il 70 per cento era già controllata da investitori privati. Grazie a quest’ultima operazione furono raccolti altri 2,2 miliardi, che sommati ai proventi garantiti da Poste e da altre vendite minori portano l’incasso totale fino ai 6,6 miliardi messi in preventivo dal governo Renzi per il 2015. Risultati eccezionali, quelli. E mai più ripetuti, visto che nei tre anni successivi gli obiettivi fissati dall’esecutivo non sono stati neppure lontanamente avvicinati.

In base ai programmi a suo tempo annunciati, le vendite di attività pubbliche avrebbero dovuto fruttare 5,5 miliardi nel 2017 così come nel 2018. Alla prova dei fatti, però, i ricavi si sono rivelati davvero poca cosa: 60 milioni in tutto, raccolti più che altro con la cessione di immobili. Un bilancio deludente, quindi. A quanto sembra, però, Lega e Cinque Stelle erano convinti di poter tornare ai fasti di un tempo lontano, addirittura alla stagione d’oro delle grandi privatizzazioni sul finire del secolo scorso. Statistiche alla mano, infatti, si scopre che le vendite di Stato hanno raccolto più di 10 miliardi nell’arco di un anno soltanto tre volte, nel 1997, nel 1999 e nel 2003. Altri tempi. In quel periodo furono messi sul mercato i pezzi pregiati dell’industria pubblica, colossi come Telecom, Eni ed Enel.

Va detto che il ministero dell’Economia controlla ancora un ricco portafoglio di partecipazioni, per un valore di decine di miliardi. Nell’elenco troviamo per esempio le quote, di gran lunga inferiori alla maggioranza assoluta, in società quotate in Borsa come Enel, Eni, Leonardo, Poste ed Enav, a cui vanno aggiunti altri gruppi interamente pubblici come le Ferrovie o la Rai.

La cessione in tempi brevi anche solo di una piccola parte di questo patrimonio risulta però tutt’altro che agevole. In qualche caso, per esempio Eni o Enel, lo Stato non può permettersi di ridurre troppo la sua presenza azionaria, in parte perché si tratta di aziende strategiche per il sistema Paese e in parte perché, vendendo le azioni, il governo si priverebbe anche dell’importante flusso di dividendi garantito ogni anno da queste società.

Un’altra soluzione, già adottata in passato (Eni e Poste) sarebbe la cessione di quote alla Cassa depositi e prestiti, istituto a controllo statale ma considerato fuori dal perimetro dei conti pubblici ai fini della contabilità dell’Unione europea. I fondi incassati dal ministero dell’Economia andrebbero quindi a ridurre il debito. In compenso, la Cdp verrebbe però privata di risorse utili alla sua missione principale, che è quella di sostenere l’economia del Paese finanziando le aziende. Proprio poche settimane fa l’esecutivo gialloverde ha peraltro già messo mano al bilancio della Cassa prelevando un dividendo straordinario di quasi 800 milioni, che si aggiunge alla cedola ordinaria di 1,2 miliardi incassata in giugno. La manovra ha contribuito a rimetterebbe in linea di galleggiamento i conti pubblici evitando la procedura di infrazione della Ue.

Di vere privatizzazioni, però, neppure l’ombra. Il governo, allora, si arrangia come può. Nei giorni scorsi un decreto ad hoc ha dato il via a un piano straordinario di vendita di immobili pubblici. Incasso previsto quest’anno: 950 milioni. Quasi venti volte in meno dei 18 miliardi scritti nel libro dei sogni di Lega e Cinque Stelle.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso