Pressione sulle comunità locali, distruzione degli ecosistemi, impatto sulle economie dei luoghi più visitati. Il libro di Cristina Nadotti smonta il falso mito della crescita infinita

In Giappone c’è una località ai piedi del monte Fuji che ha eretto una barriera per schermare la vista della cima più famosa dell’Asia e scoraggiare le foto dei turisti. Una specie di antidoto anti-hashtag, per proteggersi dall’algoritmo e dai visitatori. Ha fatto qualcosa di simile un borgo austriaco, per impedire le file che si formavano per scattare una foto allo scorcio di panorama che aveva ispirato il film “Frozen”. Sono due piccoli dettagli, raccontati da Cristina Nadotti, ma sono anche due termometri perfetti dell’esasperazione globale nei confronti del turismo, la più contraddittoria delle industrie contemporanee. Il mondo sta passando molto velocemente dal promuovere il turismo come opportunità di sviluppo al difendersi dal turismo come predazione senza futuro. È un conflitto che sta lacerando le comunità e le città.

 

Il turismo è la destinazione finale del capitalismo e rappresenta il suo nodo più ostinato, perché in questo nodo c’è l’economia, ci sono i modelli di sviluppo e di futuro, la cura dell’ambiente e la sua devastazione, ma anche l’identità, i desideri, la ricerca del piacere, la fuga dal lavoro. Il discorso sull’overtourism degli ultimi anni è stato uno dei più fecondi e interessanti per le politiche sulle città, sull’abitare, sulle diseguaglianze, è una frontiera politica ancora tutta da esplorare. Lungo questa frontiera, l’emozione dominante è la rabbia, più che giustificata per chi si è trovato nella posizione di scarto all’interno della monocoltura turistica. La rabbia però ha bisogno di strumenti politici, di dati e di consapevolezza per trovare una sua destinazione d’uso: gli adesivi contro le aziende degli affitti brevi, le pistole ad acqua contro i visitatori, le tenaglie contro i locker possono avere qualcosa di liberatorio, ma non fanno altro che il solletico a un’industria così simbolicamente ed economicamente potente.

 

È per questo che il libro di Cristina Nadotti è così prezioso: è una cassetta degli attrezzi per affrontare questa industria in modo razionale. Il turismo è qui per rimanere, ed è qui per crescere: riformarlo in modo profondo richiede radicalità, e la radicalità ha bisogno di appoggiarsi ai fatti. 

 

È difficile guardare dentro le contraddizioni del turismo, perché questa industria ci arruola a turno sia come vittime, sia come carnefici, a seconda della settimana e del periodo dell’anno. Il turismo è diventato un’ideologia e un’ideologia tossica può essere smantellata solo con la forza delle argomentazioni razionali, la base per immaginare un futuro diverso. L’autrice sceglie spesso il paragone con la crisi climatica: anche in questo caso eravamo stati avvertiti, anche in questo caso non siamo riusciti a impedire un disastro, anche in questo caso le uniche soluzioni davvero efficaci sono quelle sistemiche. Spesso si è detto che il turismo è il petrolio d’Italia, con il suo 13 per cento del Pil (misurazione sulla cui accuratezza e validità Nadotti ha molto da dire). Il paragone è diabolicamente accurato: come il petrolio, il turismo ha generato un’euforia incontrollabile che ha fatto però pochi vincitori e molti sconfitti. Come il petrolio, ci sono delle alternative sostenibili, che però funzioneranno solo dentro un modello di società diverso. Un mondo senza turismo non è né possibile, né auspicabile, ma il turismo ha bisogno di cambiare rapidamente, innanzitutto per il suo stesso bene.

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