Libia: così Tripoli, nel caos della guerra, attende il nuovo governo di unità nazionale

La città vive sospesa tra colpi di mortaio, scie di fumo e check point. Ma i giovani professionisti, espressione di un Paese che vuole cambiare volto, non rinunciano a scendere in piazza: “Governo fallito, ci avete rovinato”. E la prospettiva è quella di un conflitto di lunga durata

Colpi di mortaio, scie di fumo, esplosioni ritmate per segnalare una presenza. Si scappa di corsa e ci si barrica dentro casa. «Che vuoi fare, è così. Più che paura, è stanchezza»,  racconta qualche ora dopo Omar mentre sorseggia un tè con le mandorle. La mattina era uscito per andare a comprare la frutta e s’è trovato in mezzo a una sparatoria.

Mentre l’Europa colpita al cuore diventa consapevole di essere obiettivo del terrorismo, Tripoli vive sospesa in un equilibrio quotidiano scandito dal caos di una guerra. Si attende il nuovo governo di unità nazionale tra milizie che si oppongono con il colpo in canna, ci si blocca ai check point di ogni quartiere per avere il benestare di chi comanda, si aspetta lo stipendio che non arriva da mesi.

A meno di trecento metri si svolgono due manifestazioni. In piazza Algeria, di fronte al caffè Aurora, Ali e Jalal stringono in mano la Costituzione. E’ quella del 1951, ché quella nuova ancora non c’è. Questi giovani professionisti, espressione di una Libia che vuol cambiare volto, chiedono scuola, sanità, soldi e alle milizie di lasciare le armi. «Governo fallito, ci avete rovinato», gridano, agitando un cartello con scritto ‘42+5’, (42 anni di Gheddafi e 5 dopo la rivoluzione ndr): «Perché il regime non è ancora finito».

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Poco più in là, in piazza del Martiri, che fu piazza Verde di Gheddafi, come ogni settimana, c’è la manifestazione del “governo di salvezza nazionale”. I politici scandiscono slogan dal palco. Un gruppo di ragazze, con il niqab da cui sbucano occhi truccati, accusa il generale Khalifa Haftar di essere «il grande assassino».  Sono state cacciate da Bengasi dall’uomo forte sponsorizzato dagli egiziani, quelli che in Cirenaica hanno da sempre mire geopolitiche. Per loro Haftar è peggio di Daesh.  Ahmed, commercialista cinquantenne, annuisce e chiarisce: «Se cade questo governo scorrerà sangue, Ue e Usa non rispettano le nostre leggi».

«La Libia è un casino anche per noi, la verità è che la maggior parte delle persone spera nel governo nuovo di Fayez al-Sarraj. Perché siamo stanchi e vogliamo andare avanti in qualche modo - sottolinea Omar - «ma, perché possa entrare a Tripoli, devono essere d’accordo le milizie». E infatti si stanno facendo sentire: con carri armati spiegati per intimidire le milizie avversarie che invece hanno promesso una «guerra di lunga durata» contro il governo sponsorizzato dall'Onu.

Il deputato Fathi Bashaagha, da Misurata, non ha dubbi: «La gente vuole questo governo. Anche l’Europa e gli USA. Sono tutti contenti». Misurata, la potente città-stato martire della rivoluzione, che prima sosteneva il governo di salvezza di Tripoli e ora si è riposizionata. Per Bashaagha «gli unici che non lo vogliono sono il capo del Parlamento di Tripoli Nouri Abusahmain e il premier di Tripoli Khalifa al Ghwell». Il motivo? «Puro interesse personale».

«Noi non siamo attaccati al potere», ribatte il secondo vice primo ministro di Tripoli, Ahmed al-Hafer, «piuttosto vogliamo l'accordo di tutte le componenti libiche. Crediamo nella democrazia e chiediamo alla comunità internazionale di assicurare una soluzione pacifica per ottenere la sovranità dello Stato libico in linea con la volontà del suo popolo. Il vero governo è quello che lavora nella capitale».

I segnali negativi per al-Sarraj non arrivano solo da Tripoli. Il parlamento di Tobruk alza la voce proprio contro gli alleati della comunità internazionale che fino ad ora l’hanno riconosciuto come il solo legittimo, bollando la scelta del nuovo governo come «una violazione della sovranità libica e dei principi di democrazia».
Eppure tra moniti, minacce, negoziati e continui rinvii da Tunisi, al-Sarraj ha ripetuto che entro pochi giorni s’insedierà a Tripoli. Di certo bisognerà capire se le milizie che si dichiarano favorevoli lo difenderanno e quale aiuto militare internazionale chiederà.

Il paese tra faide, vendette tra antiregime ed ex regime, antagonismi personali, Daesh e altri gruppi islamisti, è in mano a tribù e milizie che ridisegnano le loro posizioni. Nessuno vuole trovarsi dalla parte dei perdenti e la rissa armata sembra ancora inarrestabile.

Sulle macerie della moschea di Mezran, buttata giù dai bulldozer pochi giorni fa, tre bambini giocano con la devastazione. «L’hanno distrutta perché per loro non ci devono essere le tombe», racconta Mohammed. Non sa se è stato Daesh, non è importante «quello è solo il marchio più alla moda per i criminali. Quello che paga meglio. Ma a Tripoli per ora quelli di Daesh rimangono nascosti». Mohammed parla italiano e prima di morire vorrebbe «rivedere la Roma giocare all’Olimpico, ma è impossibile avere la Visa». Mostra un biglietto da visita con le rovine di Leptis Magna scolorite. «Una volta facevo la guida turistica, ora sono disoccupato. Siamo un paese senza soldi».

Da tre mesi le banche erogano solo metà degli stipendi, il dinaro è svalutato di un quarto, e così, dentro ai vicoli della Medina, si cerca di cambiare al meglio al mercato nero quel che si ha. «Gli unici a essere pagati sono quelli che fanno parte delle milizie», racconta Mohammed. «Non tutti sono dei delinquenti, alcuni combattono per la sicurezza, ma alcune milizie hanno arruolato criminali, ex carcerati». E ragazzini che agitano kalashnikov e mitragliatori, a volte anche dopo aver calato qualche pasticca, sfrecciando su auto senza targa e con i vetri scuri. «E’ l’unico modo per sentirsi grandi e avere soldi», chiarisce Mohammed. 

Il paradosso di un Paese che possiede la più grande riserva di idrocarburi dell’Africa e un fondo sovrano che vale 67 miliardi di dollari. Un Paese precipitato in un caos fallimentare. Il bottino libico, la torta energetica, c’è ancora e davanti ai libici frammentati e divisi sono in tanti a tramare per spartirselo. Paradossi e frammentazioni. Come quelli che segnano i limiti di un’Europa che non è mai stata unita, attaccata nella sua capitale, per renderla sempre più divisa e frammentata dagli interessi nazionali. 

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