Che ci sia una barca sotto le persone lo capiamo solo perché la piramide umana della foto galleggia. A muoversi sulle acque del mar Adriatico sono donne, uomini e bambini ammassati gli uni sugli altri sulla nave Kallmi partita dall’Albania la sera del sei marzo del 1991 e arrivata a Brindisi la mattina seguente. In poche ore, nella primavera di trent’anni fa, furono ventisettemila i cittadini albanesi giunti sulle coste della Puglia a bordo di centinaia di piccole navi.
Cinque mesi dopo, l’8 agosto dello stesso anno, il mercantile Vlora, partito dal porto di Durazzo, approdò a Bari con 20 mila persone, donne stremate, uomini sfiniti dal caldo aggrappati ai ponti della nave, ragazzi che si gettavano in mare gridando «Italia, Italia».
Da lì, dal porto di Bari, la Vlora una volta fotografata approdò anche nella nostra memoria e divenne archetipo delle prime grandi ondate migratorie sulle nostre coste. Non ce ne fu mai più una di tale portata.
A guardarli da lontano, quegli uomini erano un corpo indistinto, un groviglio di cui a fatica si individuavano i confini. A guardarlo da vicino, invece, il mercantile Vlora era fatto di ventimila vite, delle esistenze degli altri e del loro patimento.
La Vlora è arrivata e, arrivando, si è fatta simbolo. Sembrava una semplice immagine, era l’icona della fuga in mare. Non potevamo non guardare quei ventimila disperati: erano qui. Dovevamo però scegliere quale distanza mantenere dalla nave per prendere l’unità di misura della comprensione.
È il dilemma dell’immagine quando testimonia la storia e le ingiustizie che produce: ci chiama in causa e ci chiede non solo di essere testimoni di un evento, ma anche cosa fare di quello che vediamo. Nel 2003, due anni dopo l’attentato alle torri gemelle di New York e un anno prima di morire, Susan Sontag scrive il suo secondo libro sulla fotografia dopo i saggi pubblicati nel 1976, il volume, recentemente ripubblicato in italiano da Nottetempo con il titolo “Davanti al dolore degli altri”, è una critica sociale sulle implicazioni delle disumanità dell’uomo sull’uomo. Perché mostrare la brutalità? Si chiede e ci chiede Sontag. Può la rappresentazione di atti umani orribili, del dolore degli altri, provocare un cambiamento?
È questo il punto di partenza della sua riflessione: per molto tempo le persone hanno creduto che se l’orrore fosse stato vivido, gli altri, gli spettatori, avrebbero compreso gli oltraggi, la follia della guerra, si sarebbero battuti contro tali ingiustizie.
Viviamo un’inversione: fino al diciannovesimo secolo l’orrore della guerra ci era distante, l’idea stessa del conflitto e delle sofferenze da esso generate era lontana nel tempo e nello spazio. La comunità assente dagli eventi percepiva la guerra come un immaginario mitico, espressione di eroismo e sacrificio.
Oggi le immagini della ferocia delle azioni belliche, degli affanni e della sofferenza, dei popoli in fuga e di quelli in cammino, invadono ogni forma di comunicazione in un flusso costante e indistinto che spazia dal Myanmar al Sudamerica, dal Medio Oriente al Continente africano. Viviamo in un mondo saturo di immagini, possiamo essere ovunque. Vogliamo vedere tutto. Il tema è: come percepiamo quello che vediamo? Cosa ce ne facciamo di quell’immagine?
Cosa resta nella foto che rappresenta il dolore, di quel dolore? Mutuando le riflessioni di Sontag potremmo domandarci oggi: abbiamo davvero capito la portata del fenomeno che viaggiava sulla Vlora più ancora che interrogarci sulle vite disperate che trasportava? Abbiamo previsto che potesse accadere ancora? Abbiamo cercato risposte, soluzioni che durassero nel tempo? A guardare il mare oggi si direbbe di no.
Sontag lega il dolore degli altri alla responsabilità e all’autorità. Perché dovremmo guardare immagini di orrori vicini e lontani se non siamo in grado di fare nulla per modificare quello che le immagini mostrano?
Il 2 settembre del 2015 la fotografia di un bambino diventa virale. È il cadavere di Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni che viaggiava con la sua famiglia, in fuga dalla guerra. Volevano raggiungere Kos, un’isola greca e da lì arrivare in Nordeuropa. Il suo corpo fu ritrovato su una spiaggia nei pressi di Bodrum, in Turchia. Il mondo si indignò, si levò un’ondata di partecipazione emotiva, di empatia verso le pene del popolo siriano in fuga dal regime di Bashar al-Assad.
Il 2015 era l’anno della crisi della rotta balcanica, l’anno record per numero di morti nel Mediterraneo centrale, la guerra siriana iniziata quattro anni prima aveva già provocato 14 milioni di sfollati, eppure fu l’immagine del corpo di un bambino di tre anni a faccia in giù, morto affogato e ritrovato esanime nella sua maglietta rossa a rendere vivida, reale, l’immagine della crisi dei rifugiati siriani nel continente europeo. La foto di Alan Kurdi apparve su venti milioni di schermi in un giorno e fu incorporata ogni ora in 53 mila tweet nelle 24 ore successive al ritrovamento del corpo. I leader europei si affrettarono a esprimere solidarietà a suo padre, rilasciando dichiarazioni sulle modifiche necessarie ai piani di ricollocamento delle persone in fuga dalla guerra.
Il 5 settembre Cameron disse: «Ci prenderemo le nostre responsabilità», l’allora primo ministro italiano Matteo Renzi disse: «L’Europa non si può solo commuovere, si deve muovere». A muoversi fu Angela Merkel che annunciò di accogliere i siriani «senza limite di numero».
Il corpo di Alan Kurdi è stato per un po’ «icona delle notizie istantanee», un’immagine che attraverso una rapida, virale diffusione diventa cornice di riferimento per un pubblico ampio, persino globale: era un corpo e insieme tutti i corpi migranti, e il loro strazio e chiedeva che l’atto del guardare diventasse forma dell’agire. Era l’oltraggio della guerra, doveva scuotere le coscienze e con esse le decisioni politiche.
Eppure poche settimane dopo la sua morte, l’Ungheria chiuse i confini e lo stesso fecero e la Croazia e la Slovenia in risposta alle decisioni della Cancelliera tedesca, il movimento di estrema destra e antimusulmano di Pegida sfruttò il risentimento di molti cittadini tedeschi per radicarsi velocemente e sul vento xenofobo che ha cominciato da allora a soffiare in Europa, il resto è Storia.
L’Europa ha lentamente esternalizzato i confini, delegando il controllo delle frontiere di terra e di mare. I partiti di estrema destra si sono moltiplicati. I ricollocamenti dei rifugiati continuano ad essere scarsi, in mare si muore ancora e si muore tanto.
Otto mesi dopo la morte di Alan, il padre del bambino, Abdullah Kurdi, in un’intervista a Repubblica disse: «I bambini profughi continuano ad affogare ogni giorno, la guerra in Siria non è stata fermata. Vedo Stati che costruiscono muri e altri che non ci vogliono accogliere. Il mio Alan è morto per niente, il mondo lo ha pianto. Poi solo parole e muri per chi fugge».
Il corpo di Alan Kurdi ha provocato un sentimento, ma non un cambiamento. Quel cadavere di tre anni, simbolo dell’indecenza della guerra, espressione dei limiti delle politiche europee ha determinato in chi guarda un sentimento meccanico: la compassione.
E un’equazione semplice: provo pietà dunque partecipo. Un’illusione, la medesima provocata dalle immagini del naufragio del 3 ottobre 2014 a Lampedusa, le centinaia di bare nell’hangar dell’aeroporto dell’isola, le immagini subacquee della Guardia Costiera dei corpi ritrovati nei relitti in fondo al mare, stretti, un abbraccio fissato immobile nell’atto di affondare, giovani impigliati nelle cime dei barconi, una madre che stringe un bimbo al petto, presumibilmente suo figlio.
Abbiamo visto tutto in questi anni, bambini denutriti nello Yemen, bambini nelle gabbie divisi dai loro genitori al confine tra Messico e Stati Uniti, bambini recuperati dalle Ong in mezzo al mar Mediterraneo. Per ognuna di queste situazioni abbiamo un’immagine da agganciare alla memoria.
La bambina di 2 anni che piange disperatamente mentre sua madre viene perquisita da un agente di frontiera al confine tra Stati Uniti e Messico, Amal, la bambina yemenita ritratta in un centro sanitario ad Aslam e morta pochi giorni dopo essere stata fotografata, gli occhi di Josefa, che prima di essere salvata da Open Arms aveva visto morire accanto a sè donne e bambini nel mar Mediterraneo.
Abbiamo visto e non potevamo non vedere, volevamo sentirci lì dove accadevano le tragedie, essere testimoni attraverso le lenti di altri e in fondo uscirne anche migliori perché osservando e indignandoci riconoscevamo l’ingiustizia subita dall’Altro, soggetto (oggetto?) dello scatto.
Guardare ci ha messi in relazione con le persone riprodotte, ci ha dato la sensazione di averle comprese. Eppure, a ben pensarci, era un’allucinazione.
La proliferazione delle immagini anziché essere strumento di conoscenza è diventato spesso sinonimo di ignavia.
L’aveva scritto già nel 1976, Susan Sontag: la fotografia è diventata uno dei principali meccanismi per provare qualcosa, per dare una sembianza di partecipazione.
Una sembianza di partecipazione. Guardare può portare riconoscimento ma anche rendere invisibile l’altro, perché vedere tutto ci illude di partecipare, e dunque ci illude di comprendere.
Forse, ci dice ancora Sontag, l’interesse umano per il dolore può essere paragonato a un incidente d’auto che fa rallentare i passanti che cercano tracce della tragedia.
Il pensiero è: sta succedendo ma non sta succedendo a me. Traslato sulle sofferenze delle vite distanti, delle vite migranti, dei profughi di guerra, il non sta succedendo a me si unisce a: il soggetto ritratto – la vittima – non mi somiglia. E qui lo scarto raddoppia, non solo non sta succedendo a me, ma: a me non può capitare. Il riconoscimento diventa una doppia negazione.
Guardando viviamo una «sembianza di partecipazione», pensiamo che l’accesso alle informazioni visive ci mostri la vastità di un problema, in verità viviamo una chimera. Perché quell’immagine che prima ci sconvolge, in seconda battuta ci solleva, ricordandoci che a noi un tale dolore non capiterà mai.
Abbiamo guardato, ci siamo sdegnati e questo basta a riconciliarci con la coscienza, a farci sentire assolti.
Anche l’inizio di questa estate 2021 è segnato da istantanee che fermano un volto, un’emozione, un abbraccio, un momento di liberazione in cui il dramma, il terrore di morire, l’urgenza della fuga, sono finalmente alle spalle. Sono le immagini che arrivano da Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, dove nelle ultime settimane sono arrivati, nuotando o a piedi, novemila migranti, molti giovanissimi, persino bambini di sei o sette anni.
Una fotografia porta il volto di un uomo della Guardia Civile Spagnola: sta salvando nell’acqua un bambino che rischiava di annegare. È un neonato, ha il volto rivolto verso il basso, un cappellino a coprire la nuca, sulle mani dei piccoli guanti.
L’uomo sembra sostenere il bambino verso l’alto, a voler leggere il suo gesto da due lati lo sta salvando dalle onde e allo stesso tempo mostrando alle coscienze di chi guarda. Sono di bambini anche i sessantasette volti della prima pagina del NY Times e di Haaretz, le piccole vittime palestinesi degli undici giorni della guerra di Gaza, sono di bambini anche i corpi ritrovati sulle spiagge libiche nei pressi di Zuwara, riversi, senza nome e senza storia, la sabbia bagnata copre i vestiti da neonato, uno è stretto in una tutina grigia che gli copre il corpo per intero, un’altra un po’ più grande, avrà quattro forse cinque anni, ha una maglietta dal colore acceso, un celeste simile al colore del cielo. È la prima cosa che si vede della foto, il celeste luminoso.
Poi, a fermarsi un po’ senza distrarsi, si vede la pancia gonfia, che spunta dalla maglia. Quanta acqua avrà bevuto prima di annegare, quanto tempo ci ha messo a morire?
Ha ancora senso mostrare queste immagini? Ha ancora senso l’esibizione del patimento, lo spettacolo scandaloso del dolore degli altri? Se esiste un’unità di misura del guardare, abbiamo visto troppo o abbiamo solo visto male? Lo sperimentiamo quotidianamente, la marea di immagini scioccanti (sempre più scioccanti) sembra aver saturato le nostre menti, sembra aver prodotto il contrario della consapevolezza, l’insensibilità, avendoci fatto smarrire la capacità di reagire. Quanto più vediamo, tanto più vogliamo vedere, desideriamo illuderci di partecipare, tanto più la compassione iniziale diminuisce, proporzionalmente alle immagini prodotte.
Forse vent’anni fa Susan Sontag parlava allo spettatore del futuro, un noi retoricamente coinvolto nelle vite degli altri ma in definitiva anestetizzato, un noi che ha prodotto una proporzionalità diretta e insidiosa: quanto più vedo, tanto piu’ l’Altro diventa invisibile, quanto più mi illudo di partecipare, tanto più l’Altro è dato per scontato. Mostrare oggi ha senso solo se smettiamo di compatire le vittime e sollecitiamo domande inevase: chi ha causato ciò che mostra l’immagine? Chi è responsabile? Guardare allora diventerebbe un incitamento all’agire, un riscatto alle ingiustizie. Questo salverebbe il soggetto dall’estetizzazione del suo dolore, e salverebbe tutti noi dall’essere – come siamo – compromessi dall’inazione. Susan Sontag ci aveva ammonito, scrivendo: lasciamoci ossessionare dalle immagini atroci.
Forse, oggi, per vedere meglio dobbiamo guardare meno. Liberare i corpi, le vite, dalla griglia dell’emozione momentanea - provata e obliata nel tempo di un istante – liberare il dolore degli altri dall’esercizio deresponsabilizzante del ricordare. È l’insegnamento più grande che Sontag ci consegna, che dovremmo tenere come una lente sul presente, quando ricordiamo i ventimila della Vlora, i morti di Lampedusa, i bambini uccisi dalle bombe, i tanti Alan Kurdi che abbiamo lasciato al di là dei confini, i morti annegati del Mediterraneo, i bambini morti di fame dall’altra parte del pianeta: forse attribuiamo troppo valore alla memoria e non abbastanza al pensiero.
Forse, dovremmo chiudere gli occhi, smettere di ricordare e chiederci: che fare?