La vicenda di Andrea Prospero e il lato oscuro della solitudine digitale - L'intervista a Giuseppe Lavenia

Il presidente dell’associazione Di.Te che si occupa di dipendenze digitali sul caso del 19 enne ritrovato senza vita, afferma: "Non è solo una storia di internet e sostanze, ma una storia di assenze. Assenza di ascolto, di dialogo"

Quello che non conosciamo fa paura, e il “deep web” e il “dark web” sono forse fra gli strumenti più misconosciuti, e spaventosi, con cui molti ragazzi maturano una familiarità che è difficile da capire, e tracciare, e può avere risvolti drammatici come nel caso di Andrea Prospero, il diciannovenne di Perugia ritrovato senza vita lo scorso gennaio. C’è stata ora una svolta nelle indagini, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha emesso l'ordinanza cautelare con l'accusa di istigazione o aiuto al suicidio nei confronti di un diciottenne di Roma, ora ai domiciliari, che su una chat Telegram avrebbe convinto Prospero a ingerire i farmaci e a morire. Il problema non è solo tecnologico: alla base della tendenza a cercare rifugio nel web nascosto c’è un disagio profondo, fatto di solitudine, bisogno di riconoscimento e assenza di ascolto. Come possiamo arginare questa deriva senza scadere nella retorica del terrore? Giuseppe Lavenia, presidente dell’associazione Di.Te, esperto di dipendenze digitali, ha raccontato a L’Espresso il suo punto di vista, sottolineando che se il web offre illusioni di potere e trasgressione, il vero antidoto è costruire un senso di appartenenza e comprensione nel mondo offline.

 

Da questa vicenda emerge una certa facilità nell'accesso al deep web e nel reperimento di sostanze illecite. È davvero così?
"Più di quanto vogliamo ammettere. Il deep web non è una leggenda metropolitana, ma un’autostrada invisibile dove tutto è in vendita, compresa l’illusione di una fuga dalla realtà. La droga si compra come un paio di scarpe online, con pochi clic e senza contatti umani. Il problema non è solo la facilità di accesso, ma il vuoto emotivo che spinge i ragazzi a cercare soluzioni chimiche per anestetizzare il dolore".

 

Come possiamo rendere i giovani più consapevoli dei pericoli che possono incontrare online senza spaventarli o allontanarli dalla tecnologia?
"Smettendo di trattarli come bambini da proteggere e iniziando a considerarli persone da responsabilizzare. Terrorizzarli non serve, demonizzare la tecnologia neanche. Bisogna educarli all’uso critico, far loro vedere le conseguenze reali delle proprie azioni, raccontare storie vere, senza filtri. La consapevolezza non nasce dalla paura, ma dall’esperienza guidata".

 

Cosa spinge un giovane a trasformarsi da vittima della solitudine a carnefice di altri coetanei in situazioni come questa?
"La solitudine non è solo assenza di compagnia, è assenza di significato. Quando un ragazzo si sente invisibile, cerca modi per esistere. Se non trova riconoscimento nel bene, lo cerca nel male. Il potere che deriva dalla sopraffazione diventa un’arma contro il senso di inutilità. È una vendetta contro il mondo che lo ha ignorato. Ma chi si vendica su altri ragazzi fragili non diventa più forte, diventa solo più solo".

 

Esistono iniziative o modelli educativi che hanno dimostrato di essere efficaci nel prevenire episodi di istigazione al suicidio online?
"Certo esistono, ma funzionano solo se la società smette di guardare altrove. Programmi di prevenzione, educazione emotiva nelle scuole, supporto psicologico accessibile a tutti. Ma nessuna iniziativa funzionerà mai davvero se continuiamo a insegnare ai ragazzi a essere “vincenti” invece che felici, se li lasciamo affogare nella solitudine digitale mentre ci lamentiamo dell’invadenza dei social".

 

Su questa vicenda c’è una cosa che non è stata ancora detta, e che invece è fondamentale per capirne i risvolti?
"Sì. Che non è solo una storia di internet e sostanze, ma una storia di assenze. Assenza di ascolto, di dialogo, di adulti presenti. Insegniamo ai ragazzi a difendersi dagli sconosciuti online, ma chi li difende dal silenzio che li circonda offline? I mostri digitali esistono, ma spesso sono solo il riflesso del vuoto che li ha generati".

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