L’emittente televisiva pubblica, al pari delle università, è occupata dai manifestanti. Secondo chi protesta, le notizie trasmesse sarebbero false, filogovernative e diffuse con un linguaggio violento nei confronti degli studenti

Avere vent’anni oggi in Serbia - Reportage nella sede occupata della Rts

Kosta ha in mano la parte organizzativa e parla con la poca stampa che c’è. Jelena è in prima linea e tiene in mano un pugnale di gomma piuma più alto di lei, Radmila distribuisce il cibo allo stand. Sono i giovani manifestanti che occupano la sede principale della Rts, l’emittente pubblica della Serbia, nel quartiere Takovska di Belgrado, a pochi metri dalla tranquilla e austera Assemblea Nazionale della Repubblica di Serbia. 

 

Se si accende la tv, qui, sui canali pubblici si vedono quasi soltanto film o documentari, al massimo qualche flash news. Il 10 marzo entrambe le sedi della Rts a Belgrado, nelle zone di Košutnjak e Takovska, sono state occupate dagli studenti come forma di protesta. Dal primo novembre 2024, quando alle 11.52 è crollata una pensilina della stazione di Novi Sad causando la morte di 16 persone, il Paese è nei fatti bloccato, tra cortei, occupazioni e azioni dimostrative pacifiche. 

 

Chiedono trasparenza, una rappresentanza politica reale e democratica. Chiedono la fine della comunicazione faziosa e della corruzione, e, soprattutto, un futuro migliore per la loro nazione. Secondo i manifestanti, le notizie trasmesse in tv erano false, filogovernative e il linguaggio utilizzato era violento e screditante nei confronti degli studenti: per questo hanno occupato la Rts. Hanno bloccato completamente l’operatività, non consentendo a nessuno di entrare - a eccezione della polizia, che passa due volte al giorno a controllare -. 

 

Non c’è un dipartimento dell’Università pubblica di Belgrado che non sia occupato. Niente corsi, né tantomeno esami. Le finestre delle aule sono tappezzate di frasi che incitano alla rivolta, meme satirici contro il presidente Aleksandar Vučić, disegni di lotta. Quello maggiormente presente è l’ormai iconica mano rossa insanguinata. Krvave su vam ruke, c’è scritto: "avete le mani sporche di sangue". Davanti al dipartimento di Filosofia c’è uno striscione: Ako ne sada? "Se non ora, quando?". All’ingresso i giovani indossano spillette del movimento - una di quelle in trend raffigura Braccio di Ferro accostato alla parola Pumpaj, spingere, che è anche uno degli slogan più urlati nelle strade di Belgrado. 

Per saperne di più sulla situazione, consigliano di guardare i video su TikTok o YouTube: non solo perché la Gen Z si informa così, ma soprattutto perché, sostengono, sono gli unici spazi in cui le notizie sulle proteste sono veritiere. Nella sede della Rts di Kosutnjak, nel grande parco poco fuori Belgrado, le giornate sono composte da dj-set, laboratori creativi e blocchi stradali per esprimere il dissenso politico. Il centro di comando delle manifestazioni, però, è la sede di Takovska. Il corteo si sente arrivare da lontano, anticipato dal rumore assordante e ininterrotto dei fischietti e delle vuvuzelas. Le proteste in Serbia sono molto rumorose. Dai megafoni incitano a fare ancora più rumore, con la voce o con qualsiasi cosa si abbia intorno, Pumpaj. E si mette la musica, ad alto volume e a qualsiasi ora. C’è chi balla, chi sventola un cartello, chi si è messo in tiro: è qui, infatti, che esce la gioventù di Belgrado il sabato sera, dopo l’ormai canonica manifestazione di ogni sabato pomeriggio, fuori dagli orari di scuola e lavoro, così che tutti possano andare. 

 

L’unico momento in cui non c’è rumore è durante i 16 minuti di silenzio, alle 11.52 e alle 20.52, per ricordare ogni giorno le 16 vittime della stazione di Novi Sad. Ci sono giovani seduti a terra tra i cartoni di pizza della sera prima, ma anche famiglie con i passeggini o anziani in gruppo. Alcuni corrono da una parte all’altra, fanno ordine, preparano i turni di sorveglianza per la settimana. “Non c’è stato un giorno in cui non siamo stati qua. Ci siamo stati il venerdì santo, a Pasqua, ogni giorno”, spiega Kosta (nome di fantasia). Altri stanno agli stand per la raccolta del cibo e la distribuzione di stickers e volantini. Non c’è nessuno che non indossi il fischietto al collo. C’è anche qualcuno che indossa una medaglia, consegnata al traguardo della marcia di 80 km tra Belgrado e Novi Sad per ricordare la tragedia del primo novembre. 

 

Tra queste persone, c’è Jelena (nome di fantasia). Ha 18 anni e la fretta di chi ha davvero troppe cose da fare. Le prime parole che pronuncia sono “Benvenuti in Serbia. La situazione adesso è abbastanza folle: il governo è corrotto, il nostro presidente è un idiota e il paese è impazzito”.

 

Sua sorella sarebbe dovuta andare proprio alla stazione di Novi Sad il primo novembre, per prendere il treno e raggiungere il fidanzato. “Sono veramente grata a Dio che quel giorno non sia andata”. “La televisione fa il lavaggio del cervello agli anziani”, dice Jelena, urlando in mezzo al caos e agitando le mani, con un anello di metallo scuro a forma di serpente attorcigliato. “Dicono loro che siamo violenti, che siamo stupidi, che dobbiamo essere picchiati”. 

 

Alla manifestazione più importante di Belgrado, quella di sabato 15 marzo, mentre la Rts parlava di circa 100 mila persone riunite in piazza, Arhiv Javnih Skupova, l'archivio indipendente sugli incontri pubblici, ha riferito che quel giorno c’erano ad affollare le vie della città dalle 275 mila alle 350 mila persone, una delle manifestazioni più partecipate di Belgrado. La stessa in cui i manifestanti sostengono che sia stata utilizzata un’arma sonica per disperderli. Un'arma che, emettendo onde ad alta intensità, causa disorientamento e nausea. Nonostante le migliaia di testimonianze, il governo ha negato di averla mai utilizzata e ancora non si è fatta chiarezza sulla vicenda. C’era anche Jelena, che racconta di aver provato un senso di nausea e un forte dolore all’orecchio destro, dal quale non è convinta di sentirci più molto bene. 

 

Le proteste, però, sembrano tranquille, la polizia accompagna i cortei lungo tutto il percorso. Sorveglia le attività, senza interferire. “Attenzione agli uomini incappucciati vestiti di nero, però - mette in guardia Jelena - sono conniventi con il governo e ci picchiano”. Jelena lotta perché ritiene che sia in ballo il proprio futuro e quello dei suoi coetanei. La protesta è plurale: è vero che parte dalla richiesta di trasparenza, ma passa anche per il femminismo, i disagi giovanili, le battaglie green, ma con l’ unico obiettivo di cambiare le cose. C’è un clima di rabbia, ma al tempo stesso di festività. 

 

È la prima volta che la Gen Z si riconosce come attore politico. “Ero una persona introversa prima di questo, non uscivo spesso. Venire qui alle proteste mi ha fatto fiorire. Ora vengo qui, parlo con le persone, ho nuovi amici”. La vita politica ha permesso a Jelena di riconoscere se stessa come parte di un tutto, forte e unito. Non solo a lei, ma a tutti i giovani serbi. Mentre la Serbia si rivolta, il presidente Vučić e il governo continuano a negare l’evidenza e a ignorare la portata delle proteste. Nonostante le recenti dimissioni del già primo ministro Miloš Vučević e la nomina del nuovo esecutivo con a capo l'endocrinologo Đuro Macut, neofita della politica, ma legato all’esecutivo precedente, le istituzioni sembra si comportino come se nulla fosse. Come se il Paese non fosse completamente bloccato dalle manifestazioni più grandi che la Serbia post Jugoslavia abbia mai conosciuto.

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