È la richiesta di otto studenti italiani su dieci, secondo un sondaggio. Perché più della metà già la utilizza, ma molti sono spaventati. E vorrebbero imparare a usarla, senza essere usati

Insegnateci l’Ia anche a scuola

Industria, finanza e servizi. Medicina, trasporti e costruzioni. Intrattenimento spicciolo, assistenti vocali o “morali” sempre più pervasivi. Che lo desideriamo o no, la nostra quotidianità sta diventando sempre più ibrida, presa (in maniera strisciante) d’assedio dall’intelligenza artificiale. Impossibile ormai rispedirla al mittente: non resta che cavalcarla senza lasciarsi sommergere. A cominciare dalle scuole, dove però l’ansia è palpabile: confusi sulla materia nonostante il loro Dna di nativi digitali, 8 studenti italiani su 10 chiedono che l’Ia sia introdotta come competenza curriculare fissa. Una disciplina da studiare in classe e approfondire a casa, con lezioni e professori dedicati. Solo così potrà essere vinto un principio di timor panico che sembra generazionale e collettivo, a giudicare dai risultati dell’edizione 2025 della ricerca “Dopo il diploma”, condotta dal portale Skuola.net insieme a Elis (una realtà non profit specializzata in attività di orientamento, formazione e inserimento professionale).

 

Uno scenario che è anche un effetto collaterale dell’uso sistematico, domestico e personale (un adolescente su due dichiara di adoperarli «molto spesso» e «spesso»), dei vari ChatGpt come strumenti per risolvere problemi di matematica o stendere elaborati. Compagni di studio o docenti di complemento, con cui ripetere e verificare (e qua e là, va da sé, copiare): un anno fa si fermavano al 34 per cento. Una preoccupazione in senso vivo, analogico è insomma il filo rosso che lega la maggior parte degli alunni dei licei e degli istituti superiori interpellati dal sondaggio, in tutto 2.500. Un dato su tutti: guardando all’indagine del 2024, gli “spaventati” dall’intelligenza artificiale sono aumentati del 10 per cento e costituiscono, adesso, il 60 per cento degli intervistati. Con diverse gradazioni: il 31 per cento reputa che ogni settore sia a rischio e un altro 29 per cento pensa che il Big Bang sarà sì rilevante, ma non in tutti gli ambiti economici. Con una sparuta percentuale di tecno-ottimisti: il terzo del campione avanzato scommette, infatti, sulla nascita di nuove professioni, in sostituzione di altre in odore di obsolescenza. Ricordiamo, tuttavia, che le stime più prudenti su scala globale ipotizzano che almeno il 18 per cento dei lavori (300 milioni di posizioni) potrebbero essere automatizzati a breve, in particolare nei Paesi sviluppati. Senza adeguate politiche di riqualificazione e welfare, c’è un inv(f)erno dietro l’angolo.

 

Ecco perché i ragazzi hanno paura, e domandano alle istituzioni di elevare subito l’intelligenza artificiale a oggetto ufficiale di studio, con lezioni ad hoc. Firmerebbe seduta stante per questa prospettiva, val la pena ripeterlo, oltre l’80 per cento degli scolari dai 14 ai 19 anni: nello specifico, il 41 per cento vorrebbe che diventasse un argomento obbligatorio e il 40 per cento la renderebbe un contenuto facoltativo. I tempi paiono maturi, anzi, stringono per la grande rivoluzione didattica del ventunesimo secolo, e pazienza per quel 16 per cento di diplomandi futuri che non hanno fin qui mai aperto un software di Ia (il loro numero si è comunque quasi dimezzato, dodici mesi or sono erano il 25 per cento). Gli altri vi ricorrono già abitualmente, pure per ragioni extra: dall’avere consigli pratici su come fare le cose (36 per cento) al produrre testi, immagini e video per uso individuale (25 per cento).

 

Il punto è che il dialogo con l’algoritmo è destinato ad avvenire al buio, perché la metà di chi lo consulta con frequenza non è formato a sufficienza. Giusto il 29 per cento segue, periodicamente, corsi o tutorial online su come sfruttare al meglio l’intelligenza artificiale generativa. Una cifra in sostanziale impasse. Ci vorrebbe uno scatto in avanti della rete scolastica, appunto, ma le premesse rimangono scoraggianti: appena un liceale tricolore su 10 ha stabilito una familiarità con l’Ia insieme ai suoi insegnanti, mentre a un altro terzo abbondante (il 35 per cento) è capitato di rado.

 

E altrove cosa succede? La consapevolezza di dover colmare il gap educativo si profila come una priorità in non pochi sistemi. Negli Stati Uniti, il numero dei laureati magistrali in intelligenza artificiale è quasi raddoppiato tra il 2022 e il 2023, e l’81 per cento dei prof d’informatica alle superiori riconosce la necessità di annoverarla nei curricula. Più in generale, a livello universitario gli States si stagliano ancora come locomotiva nel comparto Ict aggiornato all’epoca corrente, seguiti da Spagna, Brasile e Regno Unito. Allargando lo sguardo e stando al rapporto Ai Index 2025 dello Stanford Institute for Human-Centered AI, nel 2024 il 78 per cento delle aziende planetarie ha sposato soluzioni di Ia (erano il 55 per cento nel 2023).

 

Si rafforza la cooperazione internazionale, ma permangono ombre sulla governance e i risvolti etici del fenomeno, compresa la protezione dei dati personali. Il dominio incontrastato della superpotenza a stelle e strisce in materia passa, poi, per i 109 miliardi di dollari di investimenti privati e per la produzione dei modelli: 40 quelli sfornati l’anno passato, a fronte dei 15 della Cina e dei 3 per l’Europa, made in France. Eppure oltreoceano la fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” del cervello delle macchine è ai minimi termini: al 39 per cento, rispetto all’83 per cento della Cina. Non resta che tornare sui banchi di scuola.

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