Sfruttamento, norme ignorate, evasione fiscale. La magistratura indaga sulle società di consegne a domicilio. E si annunciano multe salate per i colossi del settore

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Spariti i tailleur d’ordinanza, la pausa caffè al baretto sotto l’ufficio, volatilizzati i turisti stranieri con relativo shopping compulsivo e gli studenti universitari, all’epoca del post Covid-19 la specie più rappresentativa del centro città è indubbiamente quella dei ciclo fattorini. Complice l’assenza di traffico, sfrecciano in bici a gran velocità con il naso infilato nello smartphone: con una mano reggono il manubrio, con l’altra stringono il cellulare, con un occhio guardano la strada, con l’altro l’app, per arrivare il più velocemente possibile a destinazione. Non passano inosservati per via dell’ingombrante zaino-cubo-chioccia, vistosamente griffato Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber Eats: i quattro big della consegna a domicilio.

Quando non pedalano, si raccolgono in gruppi di tre o quattro sull’uscio di qualche fast food: ciondolano, annoiati e stanchi, in attesa della corsa successiva. Sarà che la tipica fauna meneghina sembra essersi estinta, ma i rider sembrano moltiplicarsi di giorno in giorno, non solo a Milano, anche a Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e, da quando il food delivery è diventato di tendenza, anche nei capoluoghi di provincia. Ma come se la passano davvero i portatori di sushi e piadine? Parecchio male, dicono le inchieste della Procura di Milano. Lavorano a cottimo, sottostanno a condizioni di caporalato, guadagnano una miseria, per punizione qualche volta vengono privati delle loro mance, sono privi di qualsiasi tutela, mettono a repentaglio vita e salute, vengono insultati dai clienti perché si rifiutano di portare la pizza al piano, vengono nuovamente insultati dagli avventori dei mezzi pubblici perché salgono sulla metro con la bici, anche gli automobilisti riservano loro parole d’odio perché - a notte fonda, in barba al codice della strada e senza fari - s’immettono sulla superstrada per far ritorno a casa, che spesso è qualche centro d’accoglienza di periferia.
Confronti
Un rider in piena regola prenderebbe 16 euro l'ora. In realtà non arriva neanche a 4
15/7/2020

A brevissimo, verrà reso pubblico il contenuto del dettagliato rapporto sulle condizioni di lavoro dei rider, prodotto dai carabinieri del Comando tutela del lavoro di Roma, coordinati dal generale Gerardo Iorio, che nel corso degli ultimi sei mesi hanno interrogato oltre mille fattorini lungo tutto lo Stivale. I carabinieri hanno sottoposto loro un questionario di domande al fine di capire a che punto fossero sprovvisti di misure di sicurezza. In base ai primi risultati, ancora secretati dal segreto investigativo, la situazione sarebbe davvero drammatica, in violazione di qualsiasi norma del decreto legislativo 81 del 2008, cioè il testo unico della sicurezza sul lavoro: si va dai mancati contributi Inail e Inps, che hanno anche rilevanza penale per le società, all’assenza di dispositivi di sicurezza e protezione, come i caschi, le fasce catarifrangenti, nessuna visita medica di idoneità, neppure una minima formazione sul codice della strada, in molti casi neanche le mascherine, per non parlare della tutela assicurativa in caso di incidente. Il rapporto degli ispettori s’inserisce all’interno dell’inchiesta del Tribunale di Milano, coordinata dal pm Maura Ripamonti e dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che già lo scorso autunno aveva fatto luce sulla scarsa sicurezza stradale dei rider, sulle violazioni delle norme igieniche sanitarie (soprattutto perché gli zaini sono usati sia come porta vivande, sia come portaoggetti personali) e sui fenomeni di sfruttamento, come il caporalato.

Ora che il dossier dei carabinieri è in dirittura d’arrivo, potrebbero scattare multe salate per le società del delivery, che molto probabilmente le contesteranno. Infatti, le norme sulla sicurezza si applicano ai dipendenti, non ai lavoratori autonomi o ai semplici collaboratori occasionali. E qui sta il problema: le società di delivery continuano a considerare i rider alla stregua di un idraulico o di un tecnico informatico, che chiamano occasionalmente per riparare un guasto, mentre - come ha già evidenziato il primo filone dell’inchiesta milanese - tutti possono capire che c’è un inserimento stabile dei rider nel business delle piattaforme digitali, perché senza i ciclo fattorini, semplicemente, non possono lavorare. Dunque, pagare quelle multe e seguire le prescrizioni vorrebbe dire ammettere di essere il datore di lavoro dei rider, con conseguenti obblighi di sicurezza e previdenziali nei loro confronti e, tra le altre cose, andare incontro a ulteriori grattacapi perché il cottimo è assolutamente vietato dalla legge per il lavoro subordinato, quindi crollerebbe l’intera organizzazione del lavoro, che si basa proprio sul basso costo della manodopera. Non pagare quelle multe aprirebbe il fronte a un processo, preso atto che la Cassazione ha già confermato la sentenza della Corte d’Appello di Torino di qualche mese fa, che ha assimilato i rider a collaboratori continuativi eterodiretti, precisando inoltre che si tratta di un tipo di lavoro subordinato.

Sul futuro delle big four del delivery pendono anche gli sviluppi dell’altra inchiesta meneghina - coordinata dal pm Paolo Solari e dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci - a carico di Uber Eats, commissariata dal Tribunale per caporalato sui ciclo fattorini. Nonostante le altre società prendano le distanze, la magistratura fa sapere di essere solo all’inizio dell’indagine, che potrebbe estendersi anche sul fronte fiscale, per fare luce sia sul pagamento dell’Iva (capita che i ristoratori non consegnino ai fattorini lo scontrino fiscale insieme al cibo), sia sulle tasse versate, dal momento che non sempre le piattaforme hanno una sede in Italia.

«Uber Eats è solo la punta di un iceberg, tutta l’economia delle piattaforme si basa sullo sfruttamento», dice Andrea Borghesi, segretario Nidil, la categoria degli atipici della Cgil, che aggiunge: «La gig economy è l’economia dei lavoretti solo per chi rischia la vita sulle strade». Il sindacalista parte dai dati di Assodelivery, secondo cui gli introiti delle società sono in rapida ascesa: le quattro maggiori aziende hanno generato 590 milioni di giro d’affari nel 2019, contro i 350 dell’anno precedente, ed è presumibile che, per via del Covid, i risultati economici del 2020 saranno ancora più confortanti. «Sono così ricche perché il ricarico sulla consegna si aggira attorno al 26 per cento, per alcune piattaforme arriva al 30, ben oltre le cifre del della logistica, dove i costi si attestano al 10 per cento. L’inchiesta milanese ha evidenziato che ai rider spettavano 3,75 euro a consegna, mentre il grosso degli incassi restava nelle tasche delle società intermediarie e della stessa Uber Eats, che si arricchivano sulle spalle dei fattorini».

In base alla sentenza della Cassazione che si è espressa nel procedimento torinese, i rider dovrebbero essere assunti con il contratto della logistica, quindi percepire 9,70 euro l’ora, più tredicesima e quattordicesima, tfr, ferie, indennità di malattia, contributi Inps e Inail, per un totale di 16 euro l’ora. In più, in base alla nuova legge sui rider sarà obbligatorio un contratto scritto, tutele infortunistiche Inail, stop al cottimo e un pavimento minimo retributivo non sfondabile anche in caso di lavoro autonomo. A tutti dovranno essere forniti i dispositivi di protezione e sicurezza, nonché la formazione minima indispensabile per circolare sulle strade.

Ma nonostante i passi avanti delle normative, i sindacati sono scettici rispetto a un ravvedimento delle società e per questo stanno prendendo forma scioperi territoriali e proteste, come quello di settimana scorsa a Palermo, dove i fattorini dell’azienda siciliana Social Food hanno incrociato le braccia contro la riduzione degli orari di lavoro, e quindi i compensi, a due rappresentanti sindacali come ritorsione, secondo la Cgil, per aver chiesto di continuare ad applicare le precauzioni anti contagio anche dopo la fine del lockdown.

I sindacati confederali di Cgil, Cisl e Uil hanno inviato ben due richieste di incontro all’associazione di categoria, Assodelivery, per definire un protocollo sulla sicurezza: «Abbiamo raggiunto intese con tutti, all’appello mancano il mondo della scuola (ma contiamo di definire un protocollo a breve) e i rider. Si ostinano a non rispondere, così come non hanno dato cenno di dialogo rispetto ai nuovi inquadramenti professionali definiti dalla nuova normativa sui rider», dice Angelo Colombini, segretario della Cisl. Mentre per fine luglio la Cgil organizzerà un’assemblea pubblica dei lavoratori del delivery con il segretario generale Maurizio Landini: «Sarà un appuntamento online, in preparazione a una movimentazione di massa che si svolgerà a fine settembre, perché non è possibile che queste aziende si rifiutino di dialogare con noi ed è contro ogni norma di legge che in Italia operino, indisturbate, delle società che adottano il cottimo, che sfruttano le persone e pagano stipendi da fame», spiega Tania Scacchetti, segretaria della Cgil, che propone anche la creazione di un bollino di qualità sulle consegne: «Per differenziare le società di delivery che sfruttano il personale, da quelle socialmente sostenibili». Il timore, infatti, è che queste forme di caporalato dilaghino ovunque.

Già oggi le piattaforme che operano nel delivery sono lievitate a settanta: «Da quando il Covid-19 è arrivato in Italia, il lavoro su piattaforma digitale sta esplodendo e coinvolge migliaia di cittadini: autisti, badanti, babysitter, fattorini, professionisti. Se non insistiamo con norme legislative, controlli a tappeto, azioni contrattuali rischiamo di assistere a un drammatico peggioramento delle condizioni di lavoro di intere categorie professionali», avverte Luigi Sbarra, segretario della Cisl, che continua: «È una deriva che non possiamo permetterci e per questo abbiamo chiesto al ministero del Lavoro di creare un osservatorio sul lavoro digitale e al ministero dello Sviluppo Economico di predisporre un albo delle piattaforme digitali, che sono ormai tantissime».

Deliveroo, Glovo e Just Eat assicurano di fare tutto a norma di legge. Rivendicano anche l’autonomia dei fattorini: «I rider che vogliono consegnare con Just Eat sono autonomi, possono scegliere quando e quanto lavorare, e sono anche dotati di una copertura assicurativa gratuita, ad integrazione di quella Inail, forniamo loro anche i dispositivi di protezione», dice Daniele Contini, country manager di Just Eat. Gli fa eco Deliveroo che dichiara di avere «policy molto stringenti sulla lotta al crimine e una politica di tolleranza zero nei confronti del caporalato». Mentre Uber Eats si è temporaneamente auto-sospesa dal direttivo di Assodelivery per l’accusa di sfruttamento della manodopera. Insomma, un muro contro muro.

Nel mezzo ci sono i rider: a quanto pare, dovranno sgobbare ancora parecchio prima che, anche per loro, valga l’articolo 4 della Costituzione, quello in cui la Repubblica riconosce a tutti il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.

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