Due anni per una mammografia, un anno per la Tac: le liste d’attesa infinite della sanità italiana

Dilaga la pratica (illegale) delle liste bloccate, che non consente ai cittadini di effettuare la prenotazione. L’unica soluzione è ricorrere alle strutture private. Per abbattere le code, in Lombardia si punta a ridurre il tempo delle visite, ma a scapito della qualità

Jole ha 36 anni, da due lotta contro un cancro che l’ha trascinata per tre volte nella sala operatoria dell’ospedale di Lecce. La quarta volta è finita sotto ai ferri perché il suo apparato riproduttivo aveva smesso di funzionare a dovere: era il 4 novembre. Il vetrino con il tessuto istologico viene spedito con urgenza al dipartimento di Anatomia Patologica di Gallipoli per verificare se il tumore è tornato.

 

Per Jole i giorni di attesa diventano settimane, poi mesi, finché a gennaio, in un disperato rimpallo di telefonate, scopre che il referto non è ancora pronto: in quel momento stanno analizzando materiali risalenti al 22 ottobre. La vicenda finisce all’attenzione dei Nas, anche se c’è poco da investigare: manca il personale e le liste d’attesa sono chilometriche, a Gallipoli come altrove. All’ospedale di Manfredonia mancano medici per scrivere i referti degli holter cardiaci, così tutte le prestazioni di gennaio sono state annullate e rinviate a marzo. A Monza la lista d’attesa per una visita dermatologica è sospesa, a Brescia, con in mano una ricetta rossa di visita urgente da un neurochirurgo, bisogna aspettare oltre un mese. Fioccano le segnalazioni raccolte dall’associazione Cittadinanzattiva - Tribunale per i diritti del Malato: «La situazione è totalmente fuori controllo», denuncia Anna Lisa Mandorino, segretaria di Cittadinanzattiva, che spiega: «Liste d’attesa così lunghe non consentono una corretta prevenzione e diagnosi precoce, con ricadute negative sulla qualità della vita e sulla sostenibilità economica del Ssn, che deve poi intervenire su patologie più gravi. Inoltre salta il sistema di controlli periodici dei malati cronici, sempre più abbandonati a se stessi».

 

In concreto, il mancato accesso al Servizio Sanitario Nazionale si traduce nella necessità di rivolgersi a cliniche private e quindi, per il sette per cento delle famiglie italiane, nell’indebitamento, come conferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità in collaborazione con il Cergas Bocconi, per un altro 11 per cento, invece l’alternativa è non curarsi.

 

Partendo dal collo di bottiglia delle liste d’attesa, che impedisce ai cittadini di curarsi in modo equo, uguale e universale, come vorrebbe la Legge 833 del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, L’Espresso dedica un’inchiesta a puntate alla Sanità italiana, privata delle risorse minime per offrire prestazioni adeguate, indebolita dalla fuga di medici e professionisti e nella totale assenza di una visione politica.

 

Non è un caso se, nel sondaggio Quorum YouTrend l'ambito in cui il governo Meloni si è mosso peggio è la sanità, mentre il 47 per cento degli intervistati concorda nel sostenere che l’Ssn deve tornare al centro dell’attenzione. Urge, infatti, una riforma del Servizio, che tuttavia nessun partito vuole intestarsi perché, in prima battuta, bisognerebbe ammettere che il pubblico non è più in grado di svolgere un servizio universale, ma necessita del sostegno di cliniche private.

 

Basta guardare cosa accade in Lombardia e nel Lazio sul fronte degli interventi urgenti cardiovascolari che, stando agli ultimi dati di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, nel 58 per cento dei casi avvengono nel privato accreditato, mentre nell’oncologia il pubblico mantiene il primato, ma di pochissimo: «In Lombardia e Lazio, nel settore cardiovascolare, così come negli interventi ortopedici, il privato accreditato ha superato il pubblico soprattutto perché l’entità economica dei rimborsi è maggiore», commenta Maria Pia Randazzo, responsabile del monitoraggio sui tempi d'attesa di Agenas, che conferma: «In futuro il privato accreditato dovrà sempre più compensare le prestazioni che il pubblico non riesce a offrire, anche a causa della mancanza di personale. Ma se pubblico e privato continueranno a gareggiare in regime di concorrenza e non collaboreranno, il sistema non potrà reggere».

 

Tra il 2019 e il 2021 le Regioni hanno ricevuto un miliardo di euro per rafforzare e digitalizzare i sistemi di prenotazione e per integrare le liste d’attesa, tuttavia - anche a causa della pandemia – non ci sono stati grandi passi avanti: Agenas stima un arretramento del 20 per cento rispetto al 2019 per le visite specialistiche. La regione che sta meglio è la Lombardia, che peggiora la performance solo del 10 per cento, come Emilia Romagna, Basilicata e Toscana. Dall’altro lato c'è l’Alto Adige (meno 55 per cento), Calabria, Sardegna e Marche. Non va meglio sul fronte delle visite di controllo, con la Toscana - la migliore - che peggiora del 10 per cento e il tracollo della Valle d'Aosta (meno 38 per cento).

 

«Per i ricoveri ospedalieri di fascia A, cioè da effettuare entro 30 giorni dalla prescrizione, specie per patologie importanti, come i tumori e le patologie cardiovascolari, alcune regioni migliorano (Toscana, Lombardia, Sicilia e Campania), mentre altre sono crollate (Trentino, Emilia Romagna, Piemonte)», spiega la dirigente Agenas, che continua raccontando che il problema vero è la mancanza di trasparenza nella comunicazione dei dati, impedendo di scattare una precisa fotografia: «Dall’attività di audit sono emerse difficoltà di rendicontazione e certificazione dei dati. Nonostante lo stanziamento di un miliardo per migliorare i centri unici prenotazione, presso cui dovrebbero essere disponibili tutte le agende pubbliche e del privato convenzionato, non è possibile avere alcuna informazione», conclude Randazzo.

 

Di certo ci sono le segnalazioni a Cittadinanzattiva, che lamentano ritardi lunghissimi - 720 giorni per una mammografia, un anno per un’ecografia, una tac, un intervento cardiologico -, e sempre più si verifica l’illegale pratica delle liste bloccate: ovvero l’operatore del cup, il centro unico di prenotazione, non è in grado di offrire alcuna disponibilità perché non l’agenda di cui dispone si limita a tre mesi. In Emilia Romagna un 76enne con sospetta neoplasia ha chiamato il cup di Bologna, ma spiacente, la colonscopia non si può fare perché «Non c’è sufficiente personale», è stata la risposta dell'operatore. Tre giorni dopo l’uomo ha sborsato 350 euro per effettuare l’esame, seduta stante, proprio all'Ospedale Maggiore di Bologna, che in teoria è pubblico, ma offre la possibilità di fare visite private, con gli stessi camici bianchi del Ssn. Come se la mano destra dei nosocomi cittadini non sapesse cosa fa la sinistra: nello specifico si tratta della possibilità per i medici ospedalieri di sfruttare il proprio tempo libero per effettuare visite private all'interno dell'ospedale in cui lavorano. Certamente, potrebbero fare più straordinari e far scorrere velocemente le liste d’attesa del servizio pubblico, ma non conviene a nessuno, essendo il lavoro extra dei camici bianchi retribuito una miseria e perché gli stessi ospedali incassano la metà dei quattrini sborsati dai pazienti privati.

 

«Bisognerebbe lavorare con i medici di base sul fronte dell'appropriatezza prescrittiva, mentre alle Regioni spetterebbe il compito di offrire dati più veritieri sul monitoraggio, non più effettuando confronti con il passato (che a causa della pandemia la normalità è stata intaccata), ma valutando il numero di presi in carico rispetto al volume di prescrizioni effettuate», dice l’economista Milena Vainieri, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che aggiunge: «È invece molto preoccupante il considerevole aumento del ricorso alle cure private: indice di iniquità e un totale scacco alla programmazione territoriale».

 

Succede anche in Lombardia, dove l’ospedale di Lecco per una visita gastroenterica urgente risponde picche, ma sborsando 129 euro è subito disponibile. E a Brescia, dove ci vuole oltre un mese per un controllo dal neurochirurgo, nonostante la ricetta rossa indichi «da effettuarsi entro 10 giorni». Proprio in Lombardia, mentre il candidato leghista Attilio Fontana accusa il suo ex numero due e attuale sfidante, Letizia Moratti, di aver fallito sulle liste d’attesa, sorvolando sul fatto che il problema è annoso e la Moratti ha avuto almeno il merito di rimediare sul fronte dei ritardi negli interventi oncologici, si corre ai ripari con una strategia quantomeno insolita: i dirigenti regionali suggeriscono alle aziende sanitarie locali di accorciare i tempi delle visite. Per la Tac si passa da 30 a 20 minuti. Forse il paziente dovrà accontentarsi di due terzi di Tac, ma è meglio di nulla.

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